Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Napoli aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale della stessa città aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento che era stato intimato ad una lavoratrice (dipendente di una nota compagnia telefonica), disponendo che la stessa fosse reintegrata nel proprio posto di lavoro (art. art. 18 dello st. lav. Statuto dei lavoratori).
Nello specifico, la lavoratrice era stata licenziata poichè avrebbe illegittimamente visualizzato, nell’arco di due mesi, i dati di traffico di alcuni clienti.
Secondo la Corte d’appello, tuttavia, il licenziamento non poteva considerarsi legittimo, in quanto l’atteggiamento del datore di lavoro, che era solito tollerare questa prassi, escludeva che il comportamento della lavoratrice avesse incrinato il rapporto di fiducia intercorrente con la lavoratrice stessa.
Secondo il giudice d’appello, inoltre, la sanzione espulsiva non era nemmeno proporzionata alla condotta contestata.
Ritenendo la decisione ingiusta, la società datrice di lavoro decideva di proporre ricorso per Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo la ricorrente, infatti, il giudice d’appello, nel dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice, non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 2119 c.c., in quanto “le plurime violazioni di cui si era resa colpevole la lavoratrice (…) erano in palese conflitto con la posizione ricoperta dalla medesima lavoratrice all’interno dell’organizzazione aziendale e con il grado di fiducia richiesto”, con la conseguenza che il licenziamento doveva considerarsi sorretto da giusta causa e proporzionato.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover dar ragione alla società ricorrente, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione, in particolare, che il giudice d’appello non aveva correttamente applicato i principi relativi al rapporto di fiducia che deve intercorrere tra il lavoratore e il datore di lavoro.
A parere della Cassazione, infatti, la Corte d’appello non avrebbe adeguatamente tenuto in considerazione il fatto che “l’esistenza di una prassi tollerata, sulla inosservanza della procedura aziendale in ordine alle visualizzazioni del traffico telefonico degli utenti senza la indicazione dei motivi del contatto” andava rapportato “con la circostanza che delle n. 135 visualizzazioni, ben 123 riguardavano sempre gli stessi tre numeri telefonici”.
La Corte d’appello, dunque, avrebbe dovuto verificare se la fiducia del datore di lavoro fosse stata messa in discussione dal comportamento della lavoratrice, la quale aveva esposto il datore di lavoro stesso “al rischio, nei confronti degli utenti, della violazione dei diritti di riservatezza e segretezza”.
Ciò considerato, la Cassazione accoglieva il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione, tenendo conto dei principi sopra enunciati.