Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado con cui era stata rigettata la domanda proposta da un dipendente del Ministero degli Esteri, finalizzata a ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento che gli era stato intimato senza preavviso.
La Corte d’appello, in particolare, riteneva provata la condotta addebitata al lavoratore (cui era stato contestato di non aver svolto i propri compiti con l’adeguata diligenza), con la conseguenza che doveva ritenersi sussistente la fattispecie della “ripetuta e grave negligenza di inosservanza dei doveri di ufficio”, di cui agli artt. 164 e 166 del D.P.R. n. 18 del 1967.
Secondo la Corte, dunque, tale condotta era “tale da legittimare il recesso, avuto riguardo alla delicatezza dei compiti affidati al lavoratore nella materia particolarmente "sensibile" dell'immigrazione dalla Tunisia all'Italia, compiti richiedenti massima attenzione per fronteggiare il notorio fenomeno dell'immigrazione clandestina”.
Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, ai sensi degli artt. 164 e 166 del D.P.R. n. 18/1967 e degli artt. 1362 e 1365 c.c., il licenziamento poteva considerarsi legittimo “nelle sole ipotesi di condotte estremamente gravi connotate dall'elemento del dolo”.
Osservava il ricorrente che, nel caso di specie, la Corte d’appello aveva errato nel ricondurre il dolo del lavoratore nella “mera consapevolezza della condotta, prescindendo dall'elemento della intenzionalità e per avere trascurato la valutazione del suo curriculum professionale e delle note di encomio, l'assenza di provvedimento disciplinari, l'esame delle linee guida per il rilascio dei visti”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, infatti, “la valutazione della condotta del ricorrente formulata nella sentenza impugnata” era perfettamente conforme alla disposizione di cui all’art. 166 D.P.R. n. 18/1967, “che punisce con il licenziamento senza preavviso la ‘commissione in genere di atti o fatti dolosi di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro’”.
Evidenziava la Cassazione, in proposito, che la Corte d’appello aveva “fondato il giudizio di gravità della condotta addebitata sulla circostanza che, con riferimento a cinque pratiche, l'odierno ricorrente: ne aveva consapevolmente (in tal senso doveva essere inteso il riferimento alla "dolosità degli atti contenuto nella contestazione disciplinare) consentito la loro ammissione, in violazione delle modalità prescritte dalla normativa interna; non aveva effettuato i controlli della documentazione, a fronte della presenza di dati anomali ed incongruenti evincibili dai documenti stessi; aveva dato seguito alle pratiche senza segnalare le anomalie al back-office; aveva garantito la personale conoscenza dei richiedenti il visto ed addirittura il rientro in patria”.
Secondo la Cassazione, inoltre, la Corte d’appello aveva correttamente qualificato la condotta del lavoratore “come particolarmente grave, e tale da legittimare l'applicazione della sanzione risolutiva”, dal momento che lo stessa aveva commesso gravi e ripetute negligenze e inosservato i propri doveri d’ufficio, con consapevolezza e nonostante la delicatezza dei compiti affidatigli.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal ricorrente, confermando integralmente la sentenza resa dalla Corte d’appello, che aveva a sua volta confermato la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore.