Stando a quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12565 del 18 maggio 2017, sembrerebbe proprio di no.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Firenze aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di Lucca aveva accolto la domanda proposta dal lavoratore di una panetteria volta ad ottenere la condanna dell’INPS al pagamento dell’indennità di disoccupazione, relativa al periodo successivo alle dimissioni, che erano state rassegnate per ragioni di salute “derivanti da allergia alle farine”.
Secondo la Corte d’appello, infatti, la natura delle patologie da cui il lavoratore era affetto rendeva evidente che il medesimo non poteva in alcun modo essere reimpiegato all’interno della panetteria in cui lavorava, con la conseguenza che doveva essergli riconosciuto il diritto all’indennità di disoccupazione.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’INPS decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Evidenziava l’INPS, in particolare, che, ai sensi dell’art. 34, comma 5, della legge n. 448 del 1998 (legge finanziaria per il 2009), l’indennità di disoccupazione non deve essere corrisposta in caso di dimissioni.
Secondo l’INPS, la norma a cui far riferimento è l’art. 45 del Regio Decreto n. 1827 del 1935, con il quale è stato stabilito che il presupposto necessario per l’erogazione dell’indennità di disoccupazione è “uno stato di disoccupazione involontaria”.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover dar ragione all’INPS, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione, in particolare, che la disciplina dell’indennità di disoccupazione applicabile al caso di specie era rappresentata dall’art. 34 della legge n. 448 del 1998 (legge finanziaria per l'anno 1999), il quale prevede che la cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni “non dà titolo alla concessione della indennità di disoccupazione”.
Evidenziava la Cassazione, in proposito, che l’art. 45 del Regio Decreto n. 1827 del 1935 aveva stabilito che, ai fini della concessione dell’indennità, fosse necessario uno “stato di disoccupazione involontaria” ma che la legge finanziaria per l'anno 1999, aveva voluto limitare la spesa pubblica, ancorando la concessione dell’indennità “al requisito della necessaria dipendenza dello stato di bisogno del lavoratore da situazioni rigorosamente involontarie”, ritenendo che le dimissioni volontarie impedissero, dunque, in ogni caso, l’erogazione.
A sostegno della propria decisione, la Cassazione osservava che, con la sentenza n. 29481 del 2008, la stessa Corte, in un caso analogo a quello in esame, aveva precisato che “la disoccupazione è involontaria quando è dovuta a dimissioni rassegnate per il comportamento di un altro soggetto” oppure quando le stesse siano riconducibili ad un “difetto del rapporto di lavoro, così grave da impedirne la provvisoria esecuzione”.
Di conseguenza, secondo la Corte, era evidente che si fa riferimento “al fatto del datore di lavoro o al fatto del terzo, non già alla situazione soggettiva del lavoratore”, la cui decisione di dimettersi, sebbene dettata da motivi di salute, “rimane tuttavia volontaria”.
Ciò considerato, la Cassazione accoglieva il ricorso proposto dall’INPS, annullando la sentenza emessa dalla Corte d’appello e negando il diritto del lavoratore dimissionario a percepire l’indennità di disoccupazione.