Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello aveva confermato la sentenza di primo grado, che aveva condannato un imputato per tale reato, in quanto il medesimo risultava “per colpa, consistita in negligenza ed imprudenza nonché nella violazione dell’art. 141, comma 2 e 3, codice della strada, investito il pedone (…) cagionandone la morte”.
Nello specifico, i giudici dei primi due gradi di giudizio avevano ritenuto che la responsabilità dell’evento fosse da ricondurre al conducente dell’autovettura in questione, “in quanto egli non aveva adeguato la sua condotta di guida alle condizioni della strada, priva di una sufficiente illuminazione”, in quanto l’imputato “non aveva tenuto una velocità commisurata a quelle condizioni, tale da consentirgli di mantenere il controllo del veicolo e di prevedere tutte le situazioni di pericolo e non aveva azionato i fari abbaglianti, il cui uso è previsto su strada extraurbana con illuminazione insufficiente o mancante, in assenza di situazioni ostative al loro impiego”.
Ritenendo la sentenza ingiusta, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, rilevando che la vittima stava percorrendo una strada in cui sussisteva un divieto di transito ai pedoni che non indossino un giubbotto catarifrangente o che non adottino altre misure per la visibilità notturna, ai sensi dell’art. 190, comma 2, codice della strada.
Pertanto, secondo il ricorrente, “tale condotta, impedendo l’avvistabilità”, si poneva “come un evento assolutamente imprevedibile ed anomalo” che sfuggiva “ad ogni possibilità di controllo e di evitamento da parte dell’automobilista”.
Rilevava, inoltre, il ricorrente, come non sussistesse in nesso di causalità tra la sua condotta e l’evento mortale, in quanto la vittima, a seguito dell’urto, era stata sbalzata a terra e qui veniva “travolta da un’altra auto che sopraggiungeva, questa volta con esiti mortali”.
Di conseguenza, secondo il ricorrente, la responsabilità per la morte del pedone non doveva essere posta a carico dell’imputato, “bensì a carico dell’altro automobilista che era nelle condizioni di avvistare l’ostacolo, arrestarsi ed evitarlo”. Il ricorrente, dunque, riteneva, al massimo, di poter essere imputato per il reato di lesioni personali, di cui all’art. 590 codice penale (nel caso di specie non procedibile, stante la mancanza di querela).
La Corte di Cassazione riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, accogliendo il relativo ricorso.
La Cassazione evidenziava, infatti, come il giudice di secondo grado non avesse adeguatamente approfondito la questione relativa alla “causalità della colpa” dell’imputato: la medesima, infatti, si configura “non solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico, ma anche quando una condotta appropriata aveva significative probabilità di scongiurare l’evento”.
Nel caso di specie, dunque, secondo la Cassazione, il giudice d’appello avrebbe dovuto verificare “se, nelle condizioni date, la condotta della vittima – che, sceso dalla propria autovettura, circolava su strada extraurbana senza giubbotto retroriflettente – fosse prevedibile e se le conseguenze letali dell’infortunio fossero evitabili”.
Infatti, l’art. 141 codice della strada, “riguarda esclusivamente gli eventi che ricadono nella sfera di prevedibilità ed il comportamento di un pedone che procede in strada extraurbana, al buio, senza giubbotto retroriflettente e contromano, costituisce una condotta che ben potrebbe esulare dalla suddetta sfera di prevedibilità”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione annullava la sentenza impugnata, accogliendo il ricorso presentato dall’imputato.