Per l’integrazione di questo delitto, inoltre, il legislatore richiede espressamente un elemento ulteriore, cioè lo scopo perseguito dall'agente di “trarne profitto per sé o per altri”. Il ladro potrà pertanto essere dichiarato penalmente responsabile solo laddove si accerti questo dolo specifico.
Ma, in relazione a quest’ultimo elemento, ci si pone un quesito: perché sia integrato il furto, l'agente deve agire perseguendo un'utilità strettamente patrimoniale o è sufficiente che agisca per soddisfare un proprio bisogno qualsiasi? La nozione di profitto, cioè, ha rilevanza solo economica oppure vi si possono ricondurre anche vantaggi diversi?
Tale questione è stata oggetto di un'intensa elaborazione giurisprudenziale, i cui approdi sono stati di recente ribaditi dalla Corte di Cassazione.
Con la sentenza n. 20442 del 25 maggio 2022, infatti, la Suprema Corte ha richiamato, nel corso della motivazione, una serie di precedenti a favore di una nozione ampia di profitto (cfr. da ultimo, Cass. c.d. Caltabiano n. 4144/2022) per affermare conclusivamente che “in tema di furto, il fine di profitto, che integra il dolo specifico del reato, non ha necessario riferimento alla volontà di trarre un’utilità patrimoniale dal bene sottratto, ma può anche consistere nel soddisfacimento di un bisogno psichico e rispondere, quindi, a una finalità di dispetto, ritorsione o vendetta”.
La mancanza di un vantaggio patrimoniale, pertanto, non esclude di per sé la sussistenza del reato, dovendo il Giudice di merito, al fine di trarre conclusioni sulla rilevanza penale o meno della condotta, procedere all’accertamento del motivo, anche non patrimoniale, che in concreto ha determinato la condotta dell’agente.
Il caso concreto giunto al vaglio della Corte, in particolare, vedeva come protagonista un appuntato della Guardia di Finanza, imputato per il reato di furto per avere rubato da un armadio della Scuola Nautica la propria tessera di riconoscimento, la quale gli era stata ritirata a seguito del suo collocamento in aspettativa per motivi di salute.
Il Tribunale militare aveva condannato l’imputato, ma questo era poi stato dichiarato innocente dalla Corte militare d’appello, che non aveva ritenuto sussistente il dolo di profitto del reato di furto atteso che la tessera non aveva valore economico.
Avverso la sentenza di secondo grado, tuttavia, il Procuratore generale militare aveva proposto ricorso, rilevando che il dolo di profitto non deve avere necessariamente un contenuto patrimoniale: ritenendo fondata siffatta impugnazione sulla scorta dei principi esaminati, la Cassazione ha quindi cassato la sentenza con rinvio.