Al fine di comprendere tale arresto giurisprudenziale è dunque necessario preliminarmente ricordare che il reato in parola è previsto, a partire dal 2012, dall’art. 346 bis c.p., il quale prevede la pena della reclusione (da un anno a quattro anni e sei mesi) per chiunque, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, faccia indebitamente dare o promettere denaro o altra utilità, a sé o ad altri, come prezzo della propria mediazione illecita o come remunerazione per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri. Alla stessa pena – precisa il legislatore – soggiace anche colui che indebitamente dà o promette il denaro.
L’incipit della norma specifica che il reato di traffico di influenze illecite si realizza al di fuori dei casi di concorso nel reato di corruzione: con la previsione dell’art. 346 bis c.p., infatti, il legislatore intende punire proprio l’attività di mediazione illecita che si svolge in una fase prodromica rispetto alla conclusione dell’accordo che realizza la corruzione. Anche in tale fase, invero, si può realizzare una lesione al prestigio, all’imparzialità e al buon andamento della Pubblica Amministrazione, che dunque rappresenta il bene giuridico tutelato dalla norma.
Venendo agli elementi costitutivi del delitto in esame, si può ricordare schematicamente che:
- l’elemento soggettivo consiste nel dolo generico: in capo all’agente, infatti, deve sussistere la volontà di ottenere o versare una somma a titolo di corrispettivo per la mediazione illecita;
- l’elemento oggettivo consiste nella condotta di un soggetto che si fa retribuire in relazione alla possibilità, che egli afferma di avere, di influire sulle determinazioni di un pubblico ufficiale.
Ed è proprio sulla non necessità della concretizzazione del risultato illecito che è tornata di recente la Cassazione, intervenuta in relazione complessa vicenda giudiziaria nota alle cronache come c.d. Roma Capitale.
Con la citata pronuncia, infatti, la Suprema Corte ha chiarito quali sono i tratti caratteristici della condotta penalmente rilevante come mediazione illecita, sottolineando che essa è integrata ogniqualvolta si realizzi una intermediazione finalizzata alla influenza illecita sul pubblico ufficiale. Nella motivazione, si legge chiaramente, infatti che l’antigiuridicità della condotta si posa necessariamente sull’elemento finalistico e che perciò è sufficiente che le parti abbiano “di mira” un’interferenza illecita, indipendentemente dal risultato illecito che le parti intendevano perseguire.
Conclusivamente va segnalato che, a questi riguardi, la Corte ha rilevato che la norma ha contenuto indeterminato, non chiarendo in cosa consista l’influenza illecita, a discapito del principio di legalità. Al fine di evitare quindi che gli interpreti vi riconducano le più svariate forme di relazioni con la Pubblica Amministrazione, ancorchè solo informali e poco trasparenti benchè in sostanza lecite, gli Ermellini hanno precisato che “l’unica lettura della norma che soddisfi il principio di legalità sia quella che fa leva sulla particolare finalità perseguita attraverso la mediazione: la mediazione è illecita quando è finalizzata alla commissione di un fatto di reato”.