Nel caso esaminato dalla Cassazione, due genitori avevano agito in giudizio nei confronti del Comune e del comitato organizzatore di una festa patronale, al fine di vederli condannati al risarcimento dei danni subiti per aver consentito che, durante la festa, fosse posizionato un palco a meno di un metro dalla propria abitazione, “ostacolandone l’accesso e determinando immissioni sonore a turbativa della vita domestica”.
La coppia, inoltre, aveva contestato al Comune e al Comitato la circostanza che, finiti i festeggiamenti, il palco non era nemmeno stato smontato ed era diventato “base per giochi e schiamazzi della gioventù locale”.
Il Comune aveva contestato le domande svolte nei suoi confronti, “osservando di non avere alcun obbligo di vigilanza, rimanendo il proprio intervento istituzionale limitato al rilascio della concessione amministrativa per l’installazione della pedana sul suolo pubblico”.
Il Tribunale di Tempio Pausania, pronunciatosi in primo grado, aveva rigettato le domande svolte dalla coppia ma la sentenza era stata riformata in grado d’appello, in quanto la Corte riteneva che si fosse verificata una lesione ai diritti fondamentali degli attori.
Il Comune, ritenendo la decisione ingiusta, aveva deciso, dunque, di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
La Corte di Cassazione, tuttavia non riteneva di poter dar ragione al Comune ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, infatti, che il Comune, in effetti, avrebbe dovuto intervenire di fronte alla condotta del comitato, che aveva installato il palco in modo tale da ostacolare l’ingresso all’abitazione della coppia per tutto il periodo estivo (in quanto il palco non era mai stato smontato tra uno spettacolo e l’altro).
Evidenziava la Cassazione, inoltre, che tale situazione di disagio ben avrebbe potuto essere evitata “con l’ordine di riposizionare il palco dall’altro lato della piazza (come risulta essere avvenuto due anni dopo)”, cosa che, invece, il Comune non aveva fatto.
Rilevava la Cassazione, peraltro, che la “lesione al godimento della propria abitazione” trova tutela nell’art. 42 della Costituzione, che tutela la proprietà privata stabilisce i casi in cui tale diritto può essere limitato.
Secondo la Corte, peraltro, nel caso di specie, doveva essere riconosciuto anche il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) subito dalla coppia, “derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita”, dal momento che “il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti” (in tal senso si è espressa, infatti, la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20927).
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal Comune, confermando integralmente la sentenza emessa dalla Corte d’appello e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.