È evidente a tutti come, attraverso i tipici meccanismi del web - quali la condivisione immediata (sharing) - contenuti diffamatori possano diffondersi rapidamente, causando danni spesso incalcolabili all’onore, alla reputazione, all’immagine e perfino alla privacy delle persone coinvolte.
In particolare assume un ruolo significativo la figura dell'amministratore del blog. Si tratta di chi gestisce un mezzo che consente a terzi di interagire in esso, tramite la pubblicazione - anche in forma anonima - di contenuti, commenti, considerazioni o giudizi e lo stesso blog, pur essendo strumento di informazione non professionale, è idoneo a divulgare quegli stessi contenuti tra un vasto pubblico di utenti, i quali hanno, per le stesse caratteristiche del mezzo, la possibilità di accedervi liberamente.
In particolare assume un ruolo significativo la figura dell'amministratore del blog. Si tratta di chi gestisce un mezzo che consente a terzi di interagire in esso, tramite la pubblicazione - anche in forma anonima - di contenuti, commenti, considerazioni o giudizi e lo stesso blog, pur essendo strumento di informazione non professionale, è idoneo a divulgare quegli stessi contenuti tra un vasto pubblico di utenti, i quali hanno, per le stesse caratteristiche del mezzo, la possibilità di accedervi liberamente.
Di fronte a questi nuovi scenari, anche la giurisprudenza si sta evolvendo, aggiornando i propri orientamenti in tema di tutela dai danni legati alla diffamazione. Le modalità con cui le offese vengono oggi veicolate - spesso molto diverse da quelle previste dal legislatore all’epoca della stesura del codice penale - impongono una lettura più attuale e aderente alle dinamiche del mondo digitale.
La diffamazione consiste in una condotta volta a offendere o screditare l’onore o la reputazione di una persona, attraverso comunicazioni rivolte a più persone e in assenza dell’interessato.
È disciplinata dall’articolo 595 del codice penale, che punisce:
La diffamazione consiste in una condotta volta a offendere o screditare l’onore o la reputazione di una persona, attraverso comunicazioni rivolte a più persone e in assenza dell’interessato.
È disciplinata dall’articolo 595 del codice penale, che punisce:
- con la reclusione fino a un anno o la multa fino a 1.032 euro, chiunque offenda la reputazione altrui comunicando con più persone;
- con reclusione fino a due anni o multa fino a 2.065 euro, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato.
Il terzo comma dell’art. 595 c.p. prevede un aggravamento della pena nei casi in cui l’offesa sia compiuta attraverso la stampa, mezzi di pubblicità o atto pubblico: la pena in questi casi è la reclusione da sei mesi a tre anni o una multa non inferiore a 516 euro.
La diffamazione online, commessa attraverso strumenti telematici come social network, blog, forum o siti internet, rientra a pieno titolo tra le ipotesi aggravate, in quanto veicolata tramite “mezzi di pubblicità”. La possibilità che l’offesa raggiunga un pubblico amplissimo rende i danni potenzialmente enormi e molto difficili da contenere.
Con l'ordinanza n. 17360, depositata lo scorso 2 luglio, la Suprema Corte ha rivoluzionato il quadro della responsabilità per i contenuti diffamatori pubblicati online. D’ora in avanti, il gestore di un sito o blog potrà essere ritenuto responsabile per i commenti illeciti degli utenti non appena ne venga a conoscenza, anche tramite una semplice segnalazione della parte lesa, senza più bisogno di un ordine formale da parte delle autorità.
Fino a oggi, i giudici italiani avevano interpretato la normativa europea sul commercio elettronico (Direttiva 2000/31/CE) e il relativo decreto di recepimento italiano (D.Lgs. 70/2003) in modo piuttosto protettivo verso i gestori di siti. In pratica, il blogger o il titolare del sito era tenuto a rimuovere un contenuto solo dopo aver ricevuto una “conoscenza qualificata” della sua illiceità, di norma proveniente da un’autorità (come un giudice o la polizia postale).
La Cassazione ha ribaltato questa lettura. Non esiste distinzione tra conoscenza “semplice” e “qualificata”: l’obbligo di rimuovere un commento sorge non appena il gestore venga a conoscenza della sua potenziale illiceità, qualunque sia la fonte. Una PEC dell’avvocato della parte lesa, una segnalazione tramite un form, persino la lettura diretta da parte del blogger stesso possono far scattare la sua responsabilità.
La Corte richiede che il gestore intervenga solo in presenza di contenuti “manifestamente illeciti”. Ma cosa significa, in concreto, “manifesta illiceità”?
Se un commento contiene minacce di morte o insulti razzisti, la sua natura illecita è evidente.
Tuttavia, la maggior parte dei casi si muove in un’area grigia.
Sorge, quindi, spontanea una domanda: dove si traccia il confine? Un’aspra critica politica è una legittima espressione di opinione o configura diffamazione? Una recensione negativa su un ristorante rientra nella libertà di parola o rappresenta una lesione della reputazione? E una battuta satirica, può essere ritenuta offensiva?
La sentenza, di fatto, attribuisce al gestore del sito l’onere di decidere, in tempi rapidi e senza formazione giuridica, se un contenuto è lecito o meno. Se sbaglia e non rimuove, rischia una causa per danni. Se invece lo rimuove, può essere accusato di censura. Una responsabilità ambigua e rischiosa.
La diffamazione online, commessa attraverso strumenti telematici come social network, blog, forum o siti internet, rientra a pieno titolo tra le ipotesi aggravate, in quanto veicolata tramite “mezzi di pubblicità”. La possibilità che l’offesa raggiunga un pubblico amplissimo rende i danni potenzialmente enormi e molto difficili da contenere.
Con l'ordinanza n. 17360, depositata lo scorso 2 luglio, la Suprema Corte ha rivoluzionato il quadro della responsabilità per i contenuti diffamatori pubblicati online. D’ora in avanti, il gestore di un sito o blog potrà essere ritenuto responsabile per i commenti illeciti degli utenti non appena ne venga a conoscenza, anche tramite una semplice segnalazione della parte lesa, senza più bisogno di un ordine formale da parte delle autorità.
Fino a oggi, i giudici italiani avevano interpretato la normativa europea sul commercio elettronico (Direttiva 2000/31/CE) e il relativo decreto di recepimento italiano (D.Lgs. 70/2003) in modo piuttosto protettivo verso i gestori di siti. In pratica, il blogger o il titolare del sito era tenuto a rimuovere un contenuto solo dopo aver ricevuto una “conoscenza qualificata” della sua illiceità, di norma proveniente da un’autorità (come un giudice o la polizia postale).
La Cassazione ha ribaltato questa lettura. Non esiste distinzione tra conoscenza “semplice” e “qualificata”: l’obbligo di rimuovere un commento sorge non appena il gestore venga a conoscenza della sua potenziale illiceità, qualunque sia la fonte. Una PEC dell’avvocato della parte lesa, una segnalazione tramite un form, persino la lettura diretta da parte del blogger stesso possono far scattare la sua responsabilità.
La Corte richiede che il gestore intervenga solo in presenza di contenuti “manifestamente illeciti”. Ma cosa significa, in concreto, “manifesta illiceità”?
Se un commento contiene minacce di morte o insulti razzisti, la sua natura illecita è evidente.
Tuttavia, la maggior parte dei casi si muove in un’area grigia.
Sorge, quindi, spontanea una domanda: dove si traccia il confine? Un’aspra critica politica è una legittima espressione di opinione o configura diffamazione? Una recensione negativa su un ristorante rientra nella libertà di parola o rappresenta una lesione della reputazione? E una battuta satirica, può essere ritenuta offensiva?
La sentenza, di fatto, attribuisce al gestore del sito l’onere di decidere, in tempi rapidi e senza formazione giuridica, se un contenuto è lecito o meno. Se sbaglia e non rimuove, rischia una causa per danni. Se invece lo rimuove, può essere accusato di censura. Una responsabilità ambigua e rischiosa.