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Articolo 415 bis Codice Penale

(R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)

[Aggiornato al 23/10/2025]

Rivolta all'interno di un istituto penitenziario

Dispositivo dell'art. 415 bis Codice Penale

(1)Chiunque, all'interno di un istituto penitenziario, partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all'esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Ai fini del periodo precedente, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell'ufficio o del servizio necessari alla gestione dell'ordine e della sicurezza.

Coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta sono puniti con la reclusione da due a otto anni.

Se il fatto è commesso con l'uso di armi, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal primo comma e da tre a dieci anni nei casi previsti dal secondo comma.

Se dal fatto deriva, quale conseguenza non voluta, una lesione personale grave o gravissima, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal primo comma e da quattro a dodici anni nei casi previsti dal secondo comma; se, quale conseguenza non voluta, ne deriva la morte, la pena è della reclusione da sette a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da dieci a diciotto anni nei casi previsti dal secondo comma.

Nel caso di lesioni gravi o gravissime o morte di più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata fino al triplo, ma la pena della reclusione non può superare gli anni venti.

Note

(1) Articolo introdotto dall'art. 26, comma 1, lettera b) del D.L. 11 aprile 2025, n. 48, conv. in l. 9 giugno 2025, n. 80.

Ratio Legis

La ratio della norma in commento si ritrova nella volontà del legislatore di prevedere una tutela speciale dell’ordine e della sicurezza carceraria.

Spiegazione dell'art. 415 bis Codice Penale

Il d.l. n. 48 del 2025 conv. dalla L. n. 80 del 2025 (c.d. Decreto Sicurezza) ha introdotto la fattispecie di reato della rivolta all’interno di un istituto penitenziario.

Il delitto in esame ha natura plurioffensiva poiché il bene giuridico tutelato è triplice: l’ordine pubblico, l’incolumità del personale di custodia e la sicurezza degli istituti penitenziari.

Ai sensi del comma 1, la condotta criminosa consiste nella partecipazione ad una rivolta posta in essere all’interno dell’istituto penitenziario da tre o più persone riunite.

La nuova norma prevede un reato proprio poiché soggetti attivi possono essere soltanto le persone che si trovino all’interno di un istituto penitenziario.

Come evidenziato dai primi commentatori, il concetto di “rivolta” è di difficile analisi. Basta pensare che, tra l’altro, questo termine non si ritrova in nessuna disposizione di legge.

Si tratta di un reato plurisoggettivo necessario poiché, per la sua sussistenza, occorre che le condotte tipiche siano realizzate da almeno tre persone che abbiano agito “riunite”.

La “partecipazione ad una rivolta” si concretizza nel compimento di atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti.

La minaccia si concretizza nel prospettare un male futuro ed ingiusto che consiste nella lesione o messa in pericolo di beni giuridici del soggetto passivo o di soggetti a lui legati (da rapporti di parentela, affetto etc.). La minaccia deve essere idonea a determinare una costrizione del soggetto passivo, non essendo sufficiente la mera reazione genericamente minatoria del privato.

Per quanto riguarda la violenza, tradizionalmente si è detto che la violenza consiste nell’uso di un’energia fisica che provoca un pregiudizio fisico ad altri; secondo una tesi più recente, la violenza consiste nella costrizione della volontà altrui, senza che sia necessaria una coazione fisica in senso stretto. Per recente Cassazione, basta l’uso di qualsiasi coazione, anche indiretta, idonea a comprimere la libertà di azione del funzionario pubblico.

La resistenza consiste nell’impedire o comunque ostacolare il compimento di un’azione. In particolare, gli atti di resistenza integrano il reato in esame solo qualora si concretizzino in un’opposizione all’esecuzione di ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza.

Il legislatore ha previsto che costituiscono “atti di resistenza” anche le condotte di resistenza passiva. Tali comportamenti sono punibili soltanto quando essi, tenuto conto del numero delle persone coinvolte e il contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, abbiano impedito il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.

Parte della dottrina dubita della compatibilità del concetto di “resistenza passiva” con i principi di tassatività e di offensività.

Inoltre, la nuova disposizione stabilisce circostanze aggravanti del reato di cui al comma 1.

Seguendo quanto precisato nella Relazione del Massimario sul Decreto Sicurezza, il comma 2 prevede una circostanza aggravante dell’ipotesi di cui al comma 1, stabilendo una pena più alta per la condotta di promozione, organizzazione e direzione della rivolta.

Ancora, il comma 3 prevede un’altra aggravante per il caso dell’uso di armi.

I commi 4 e 5 prevedono un aumento di pena anche nel caso di eventi di lesione o morte quale conseguenza non voluta della rivolta: in tal caso, sono aumentate le pene di cui all’art. 589 del c.p. e all’art. 590 del c.p. (come da art. 586 del c.p.) e anche le pene per il reato voluto (cioè, quello in commento), con variazioni differenti in base alle modalità della condotta e se dal fatto siano derivate lesioni o morte di più persone.

Quanto all’elemento soggettivo, il reato richiede il dolo generico: ossia, occorre solo la coscienza e volontà di tenere le condotte incriminate.

Il reato è sempre procedibile di ufficio.

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