Il d.l. n. 48 del 2025 conv. dalla L. n. 80 del 2025 (c.d. Decreto Sicurezza) ha introdotto la fattispecie di
reato della
rivolta all’interno di un istituto penitenziario.
Il
delitto in esame ha
natura plurioffensiva poiché il
bene giuridico tutelato è triplice: l’
ordine pubblico, l’
incolumità del personale di custodia e la
sicurezza degli istituti penitenziari.
Ai sensi del comma 1, la
condotta criminosa consiste nella
partecipazione ad una rivolta posta in essere
all’interno dell’istituto penitenziario da
tre o più persone riunite.
La nuova norma prevede un
reato proprio poiché
soggetti attivi possono essere soltanto le persone che si trovino all’interno di un istituto penitenziario.
Come evidenziato dai primi commentatori, il concetto di “
rivolta” è di difficile analisi. Basta pensare che, tra l’altro, questo termine non si ritrova in nessuna disposizione di legge.
Si tratta di un
reato plurisoggettivo necessario poiché, per la sua sussistenza, occorre che le condotte tipiche siano realizzate da
almeno tre persone che abbiano agito
“riunite”.
La “
partecipazione ad una rivolta” si concretizza nel compimento di
atti di violenza o
minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti.
La
minaccia si concretizza nel prospettare un male futuro ed ingiusto che consiste nella lesione o messa in pericolo di beni giuridici del soggetto passivo o di soggetti a lui legati (da rapporti di parentela, affetto etc.). La minaccia deve essere
idonea a determinare una costrizione del soggetto passivo, non essendo sufficiente la mera reazione genericamente minatoria del privato.
Per quanto riguarda la
violenza, tradizionalmente si è detto che la violenza consiste nell’uso di un’energia fisica che provoca un pregiudizio fisico ad altri; secondo una tesi più recente, la violenza consiste nella costrizione della volontà altrui, senza che sia necessaria una coazione fisica in senso stretto. Per recente Cassazione, basta l’uso di
qualsiasi coazione, anche indiretta, idonea a comprimere la libertà di azione del funzionario pubblico.
La
resistenza consiste nell’
impedire o comunque ostacolare il compimento di un’azione. In particolare, gli atti di resistenza integrano il reato in esame solo qualora si concretizzino in un’
opposizione all’esecuzione di ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza.
Il legislatore ha previsto che costituiscono “atti di resistenza” anche le condotte di
resistenza passiva. Tali comportamenti sono punibili soltanto quando essi, tenuto conto del
numero delle persone coinvolte e il
contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, abbiano impedito il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.
Parte della dottrina dubita della compatibilità del concetto di “resistenza passiva” con i principi di tassatività e di offensività.
Inoltre, la nuova disposizione stabilisce circostanze
aggravanti del reato di cui al comma 1.
Seguendo quanto precisato nella Relazione del Massimario sul Decreto Sicurezza, il comma 2 prevede una
circostanza aggravante dell’ipotesi di cui al comma 1, stabilendo una pena più alta per la condotta di
promozione, organizzazione e direzione della rivolta.
Ancora, il comma 3 prevede un’altra aggravante per il caso dell’
uso di armi.
I commi 4 e 5 prevedono un aumento di pena anche nel caso di
eventi di lesione o morte quale conseguenza non voluta della rivolta: in tal caso, sono aumentate le pene di cui all’
art. 589 del c.p. e all’
art. 590 del c.p. (come da
art. 586 del c.p.) e anche le pene per il reato voluto (cioè, quello in commento), con variazioni differenti in base alle modalità della condotta e se dal fatto siano derivate lesioni o morte di più persone.
Quanto all’
elemento soggettivo, il reato richiede il
dolo generico: ossia, occorre solo la coscienza e volontà di tenere le condotte incriminate.
Il reato è sempre
procedibile di ufficio.