Servitù di presa delle acque fluenti contemplata dall'art. 543 del vecchio codice. Tale articolo, posto in rapporto con it precedente art. 427 e con l'art. 102 della legge sui lavori pubblici, aveva dato luogo nella dottrina a tre tesi: quella privatista, quella demanialista, quella distinguente, che aveva finito col prevalere coincidendo con quanto dispone la legge speciale sulle acque
Il vecchio codice contemplava all'art. 543 la servitù di presa dalle acque fluenti, stabilendo:
a) che il proprietario il cui fondo costeggiasse un'acqua fluente e senza opere manufatte, tranne quella dichiarata demaniale o sulla quale altri avesse diritto, poteva, mentre trascorreva, farne uso per l'irrigazione dei suoi fondi e per l'esercizio delle sue industrie a condizione di restituire le colature e gli avanzi al corso ordinario;
b) che uguale diritto competeva al proprietario del fondo attraversato, con lo stesso obbligo di restituzione quando l'acqua usciva dal fondo.
L'art. 543, se posto in rapporto con l'art. 427, che dichiarava appartenenti al demanio pubblico i fiumi e i torrenti, e con l'art. 102 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 (all. F) sui lavori pubblici, che definiva «
acque pubbliche » i minori corsi naturali distinti dai fiumi e torrenti con la denominazione di «
fossati », «
rivi » e «
colatori pubblici » aveva dato luogo, attraverso ad annose controversie, a tre interpretazioni diverse, e precisamente:
a) alla tesi privatista, che si poteva considerare la prevalente (sostenuta da Gianzana, Dionisotti, Ricci, Gadda, Ranelletti, Filomusi-Guelfi ed altri), secondo cui i minori corsi d'acqua erano da considerare tutti di proprietà privata, sebbene fortemente limitata sia per il diritto di tutela che lo Stato esercita su di essi nell'interesse generale in base alla legge sui lavori pubblici, sia per il potere conciliativo che nelle controversie vertenti su tali acque tribunali erano chiamati ad esercitare per l'art.
912;
b) alla tesi demanialista (sostenuta da Mazza, Varcasia, Tiepolo), secondo cui i corsi minori erano da considerare tutti demaniali non altrimenti che i fiumi o i torrenti;
c) alla tesi distinguente (Meucci), secondo cui dei minori corsi d'acqua alcuni erano da considerarsi demaniali, altri privati.
A quest'ultima tesi aveva acceduto anche altra parte della dottrina (Pacelli), ma mentre la tesi distinguente riteneva che l'art.
910 c. c. contemplasse nei minori corsi d'acqua tanto quelli demaniali quanto quelli privati, lasciando cosi immutato l'articolo stesso (il quale attribuisce ai rivieraschi il diritto di servirsi dei naturali corsi d'acqua), con l'art. 132 della legge sui lavori pubblici che vietava di derivare acque pubbliche a chi non ne avesse titolo legittimo o non ne avesse ottenuta la concessione dal Governo. Per il Pacelli, invece, gli artt.
910 e ss. c.c. riguardavano solo i minori corsi privati, cioè quelli che non hanno tale importanza da giovare al pubblico uso.
Tale interpretazione si può dire coincida con quella data, prima, dalla
Cassazione di Roma a Sezioni Unite, poi dalle norme sulle derivazioni d' acque pubbliche del 1916, 1919 e 1933. Secondo tali norme, e precisamente secondo l'art. 1 del T. U. 11 dicembre 1933, n. 1775:
a) sono pubbliche tutte le acque sorgenti fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal sottosuolo, sistemate o incrementate, le quali, considerate sia isolatamente per la loro portata o per l'ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse;
b) le acque pubbliche sono iscritte, a cura del Ministero dei LL. PP., in elenchi per provincie, da approvarsi con decreto reale.
Si può dunque concludere:
a) che gli art. 543 e segg. c.c. applicavano a quelle acque che non erano state iscritte negli elenchi suddetti;
b) che, dovendo essere incluse in tali elenchi solo le acque che abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse, vanno considerate acque private non soltanto quelle di minima o scarsa importanza, ma anche quelle che, pur potendo giovare a diversi proprietari, non presentano l'indicata attitudine.
Altre questioni sorte nell'applicazione del citato art. 910
Ciò chiarito, restava da vedere a quali altre questioni desse luogo l'applicazione dell'art.
910. Anzitutto si discuteva se l'uso dell'acqua che spettava ai rivieraschi dovesse essere proporzionato all'estensione dei vari fondi o invece ai bisogni di ciascuno di essi. Vi sono, ad esempio, i fondi irrigui sabbiosi o ghiaiosi che hanno bisogno di una notevole quantità d'acqua, al contrario di quanto avviene per i fondi argillosi. In simili casi la ripartizione per superficie rappresenta una disparità di trattamento.
Il Pacifici-Mazzoni giustificava questo sistema meccanico considerando che i rivieraschi sono comproprietari delle acque e quindi hanno uguale diritto ad usarne, salvo i provvedimenti dell'autorita giudiziaria nel caso che l'acqua fosse insufficiente.
Per il Gunzana, invece, 1 reparto tra frontisti si doveva fare secondo il bisogno, ma tra proprietario superiore e proprietario inferiore doveva prevalere l'interesse di quello superiore. Tale Autore si appoggiava all'autorità del Ricci, secondo cui la servitù a favore del rivierasco inferiore era imposta sulle colature e sugli avanzi da restituire al corso ordinario, e quindi tale servitù non si poteva estendere in modo da privare il fondo superiore delle acque che potesse utilmente impiegare.
Il Codivilla ammetteva i1 reparto in base al bisogno anche nei confronti tra proprietari a valle e proprietari a monte: il proprietario attraversato dal corso d'acqua non aveva per lui maggiori diritti del proprietario costeggiato.
Il Vitale accedeva, in complesso, alla tesi del Gianzana.
Per l'art.
910 il rivierasco poteva usare dell'acqua per l'irrigazione di più fondi di sua proprietà, ma ciò andava interpretato nel senso che si trattasse di fondi contigui, non separati da altri fondi, da strade ecc.
Sorgeva però la questione se, nel caso in cui il rivierasco avesse
venduto le sue terre irrigue a diversi acquirenti, potessero beneficiare della servitù di presa d'acqua tutti gli acquirenti, o solo quelli che avevano acquistato la parte dei fondi costeggiante il corso d'acqua.
L'interpretazione restrittiva partiva dal concetto che il beneficio contemplato dall'art.
910 derivasse dalla situazione dei luoghi e quindi solo chi si trovava nelle condizioni topografiche volute dalla legge poteva goderne. Non è dubbio però che tale tesi danneggiasse gli interessi dell'agricoltura, obbligando i proprietari delle terre, già irrigate e venute poi a trovarsi separate dal corso d'acqua, all'abbandono delle colture irrigue, mentre lo sforzo del legislatore e di favorire in ogni modo l'estendersi delle irrigazioni e di non privare i terreni, che già ne godono, del beneficio dell'acqua.
All'articolo in esame va data l'interpretazione prevalsa nell'applicazione del vecchio codice
Il nuovo codice ha fuso in un solo comma i due dell'art. 543 del vecchio codice, e ha usato anche una formulazione più sintetica. Inoltre, limitando l'applicazione della norma all' «
acqua non pubblica » ha confermato che la norma stessa si riferisce esclusivamente ai minori corsi d'acqua di natura privata. La formula negativa usata dal legislatore potrebbe veramente offrire qualche appiglio agli scrittori i quali sostengono che non esistono più acque private ma siccome manca una categoria intermedia tra il pubblico e il privato e d'altra parte l'acqua non pubblica che corre naturalmente non può nemmeno essere assoggettata alla tutela dell'Amministrazione al pari dell'acqua estratta artificialmente dal sottosuolo, non è possibile dare alla formula negativa del nuovo codice l'accennata interpretazione.
II legislatore non ha creduto di risolvere con l'articolo in esame le altre questioni dibattute in merito all'interpretazione dell'art. 543 del vecchio codice ma anche di fronte alla nuova disposizione sembra debba prevalere la tesi di chi sosteneva che l'uso dell'acqua irrigua spettante ai rivieraschi deve essere proporzionato al bisogno di ciascuno e non alla superficie dei rispettivi fondi, e che chi ha acquistato parte di un fondo irriguo ha diritto di continuare nell'uso del corso d'acqua di cui l'intero fondo era rivierasco, anche se la parte del fondo da lui acquistata non costeggia direttamente il corso stesso.