Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva confermato la condanna di un imputato per il reato di “violenza sessuale”, in quanto questi avrebbe costretto la sua ex compagna a subire con violenza, “sbattendola contro un muro, tenendola ferma per le braccia, sputandole ed insultandola, atti sessuali consistiti in toccamenti delle parti intime e tentando di baciarla in bocca fino a quando costei gli mordeva la lingua”.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, la Corte d’appello avrebbe fondato la propria decisione di condanna sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa, le quali, tuttavia, non potevano considerarsi credibili ed erano state contraddette “dalle numerose ritrattazioni della donna, dal racconto dei testimoni”, nonché da una mail con cui l’imputato chiedeva alla donna “di lasciarlo in pace” e “dalle numerose relazioni sentimentali dal medesimo intraprese dopo la rottura del fidanzamento”.
Secondo il ricorrente, inoltre, la persona offesa avrebbe avuto un interesse economico nella questione, in quanto l’imputato aveva richiesto al fratello della vittima il pagamento dei propri compensi per l’attività professionale svolta in suo favore e questi, al fine di sottrarsi all'adempimento, l’aveva minacciato “di denunciarlo penalmente per i fatti occorsi alla sorella se egli avesse insistito nelle sue richieste”.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover dar ragione all’imputato, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Osservava la Cassazione che la sentenza impugnata presentava “un'evidente opacità argomentativa” circa la responsabilità dell’imputato, che era desunta dall’attendibilità della persona offesa e dalle deposizioni testimoniali rese dai famigliari della stessa.
La Corte di Cassazione riteneva, inoltre, meritevole di attenzione la circostanza - “del tutto singolare sotto il profilo temporale” - secondo cui la persona offesa aveva denunciato l’imputato “a ben sei mesi di distanza dal reato in contestazione” ma dopo “nemmeno un mese” dalla richiesta di pagamento avanzata dall’imputato nei confronti del fratello della vittima.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, restava da chiarire il rapporto tra la querela presentata dalla persona offesa e il credito vantato dall’imputato nei confronti del fratello della persona offesa stessa.
Precisava la Cassazione, dunque, che, se è vero che la deposizione della persona offesa “è astrattamente idonea a fondare di per sè sola (…) la prova del fatto”, è pur vero che il giudice deve indagare la credibilità della stessa, verificando concretamente la “reale terzietà” della medesima, soprattutto “quando entrano in gioco interessi astrattamente confliggenti con quelli dell'imputato”.
Nel caso di specie, invece, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva del tutto “omesso di valutare il sottostante interesse economico da cui avrebbe potuto essere teoricamente animata la vittima”, che rappresentava un “elemento decisivo” ai fini della decisione circa la responsabilità dell’imputato, “stanti le ricadute in termini di attendibilità della persona offesa”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dall’imputato, annullando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione, sulla base dei principi sopra enunciati.