Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Trento aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di Rovereto aveva condannato un condomino per il reato di “interferenze illecite nella vita privata”, commesso in danno del proprio vicino di casa e dei suoi famigliari.
Nello specifico, all’imputato era stato contestato di aver commesso tale reato “installando sul balcone della propria abitazione due telecamere”, mediante le quali l’imputato stesso si sarebbe procurato indebitamente “immagini attinenti la vita privata che si svolgeva nella abitazione di C.A. e dei suoi familiari”.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Osservava il ricorrente, infatti, che una delle videocamere in questione serviva quale “videocitofono sulla porta d’ingresso”, mentre l’altra, installata su un albero, “in realtà non aveva mai funzionato”.
Secondo il ricorrente, poi, i giudici dei precedenti gradi di giudizio “avrebbero errato nel valorizzare esclusivamente l’assenza di consenso delle persone offese”, in quanto essi avrebbero dovuto tenere in considerazione il fatto che l’imputato non voleva “procurarsi indebitamente immagini vietate”, dal momento che “il sistema istallato non era di videosorveglianza continua, ma attivabile a comando, e funzionate perciò nello stesso modo di un videocitofono, e, soprattutto, era stato istallato per tutelare la sicurezza dell’area (priva di protezioni e direttamente accessibile dalla strada statale) da intrusioni di terzi”, anche nell’interesse degli altri comproprietari.
Evidenziava il ricorrente, peraltro, che le persone offese non avevano mai manifestato la loro opposizione all’installazione delle videocamere e che le immagini erano da loro visionabili.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover dar ragione al ricorrente, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Precisava la Cassazione, infatti, che l’impianto di videosorveglianza oggetto di contestazione era “era idoneo a riprendere parti comuni” e consentiva solo “in minima parte” di riprendere l’esterno di un balcone e di una sporgenza dell’edificio di proprietà delle persone offese.
Evidenziava la Cassazione, inoltre, che alle persone offese era stato dato accesso al sistema di videosorveglianza, il che dimostrava che “nè il sistema di ripresa nè le singole riprese erano in alcun modo loro occultate”.
Secondo la Cassazione, dunque, non poteva ritenersi integrato il reato di cui all’art. 615 bis c.p., dal momento che lo stesso presuppone sia “l’indebita interferenza in uno dei luoghi indicati nell’art. 614 c.p., realizzata con le previste apparecchiature”, sia “l’attinenza delle notizie od immagini – così indebitamente captate – alla vita privata che si svolga in quei luoghi”.
Nel caso di specie, invece, era evidente che l’imputato aveva semplicemente esercitato il proprio diritto di “osservare quanto accadeva in zone comuni non protette alla vista (nè sua nè di estranei)” e che la ripresa di quanto avveniva in tali luoghi “non era d’altro canto effettuata clandestinamente nè fraudolentemente” e, pertanto, non era “neppure idonea a cogliere di sorpresa i condomini in momenti in cui potevano credere di non essere osservati”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dall’imputato, annullando la sentenza impugnata “perchè il fatto non costituisce reato”.