In tema di conferimenti dei soci nelle società di capitali, l’articolo 2466 del codice civile prevede che, quando un socio non adempie all’obbligo di versamento della propria quota, per prima cosa gli altri soci devono richiedergli di eseguirlo entro il termine trenta giorni, decorso inutilmente il quale possono, alternativamente: proporre azione giudiziale di condanna all’adempimento, vendere ai soci, proporzionalmente alla loro quota di partecipazione, la quota del socio moroso, secondo il suo valore risultante dall’ultimo bilancio approvato; vendere la quota all’incanto.
Se la vendita non può aver luogo per mancanza di compratori, gli amministratori possono escludere il socio, trattenendo le somme riscosse, e conseguentemente ridurre il valore nominale del capitale sociale in misura corrispondente alla quota del socio escluso.
Dunque, qualora il socio venga escluso, se vi sono già stati da parte sua dei versamenti che sono trattenuti dalla società, questi non sono più vincolati al capitale, che si è ormai ridotto corrispondentemente all’intera quota.
La Cassazione si è però recentemente trovata dinanzi ad un caso particolare: quello in cui, a seguito della sottoscrizione di un aumento del capitale sociale di una SRL, il socio si era reso inadempiente non dell’intero obbligo di conferimento, bensì dell’obbligo di versamento della differenza tra la quota iniziale e quella risultante a seguito dell’aumento. Il socio moroso era stato così escluso dalla società.
La Corte, con la sentenza n. 1185/2020, ha affermato che, nel caso in cui il socio abbia già conseguito la sua posizione adempiendo all’obbligo di conferimento iniziale così come stabilito nell’atto costitutivo, se si sia reso moroso solo successivamente, in occasione della sottoscrizione dell’aumento di capitale, non può essere escluso, in quanto l’esclusione andrebbe ad incidere sulla sua ormai stabilmente acquisita qualità di socio. L’esclusione, infatti, andrebbe a coinvolgere anche la quota che apparteneva al socio prima della decisione di aumento del capitale sociale.
Dunque, non potendosi escludere il socio, la sua morosità determina unicamente la riduzione del capitale sociale, la quale, in questo caso, deve corrispondere non al valore nominale della quota iniziale, ma va attuata in misura corrispondente al debito di sottoscrizione derivante dall’aumento che non è stato versato.
Può aversi un’eccezione a questa regola solamente nel caso in cui lo statuto preveda espressamente l’indivisibilità della quota del socio, così che la quota sottoscritta in sede di aumento del capitale rimanga indistinta da quella di cui il socio era precedentemente titolare. Solo in questo caso, trattandosi di una quota “unica”, il socio che ne è titolare può essere escluso per morosità a seguito di aumento del capitale.