Nel caso esaminato dalla Cassazione, una collaboratrice domestica aveva agito in giudizio, evidenziando che il proprio rapporto di lavoro era iniziato in una data antecedente rispetto alla formale stipula del contratto di lavoro.
Di conseguenza, la domestica aveva chiesto che il giudice accertasse tale circostanza e condannasse la datrice di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive.
Il Tribunale di Roma, pronunciatosi in primo grado, aveva rigettato la domanda proposta dalla collaboratrice domestica e la sentenza era stata confermata dalla Corte d’appello.
La Corte d’appello, in particolare, era giunta alla decisione di rigettare la domanda della domestica, in quanto aveva ritenuto che la stessa non avesse adeguatamente provato l’inizio anticipato del rapporto di lavoro rispetto alla formale assunzione.
Ritenendo la decisione ingiusta, la domestica aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Nemmeno la Corte di Cassazione, tuttavia, riteneva di poter dar ragione alla domestica, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Evidenziava la Cassazione, infatti, che la Corte d’appello aveva adeguatamente motivato la propria decisione, basando la stessa sulle dichiarazioni rese dai testimoni sentiti in corso di causa, nonché sulla circostanza che, nel periodo rivendicato dalla domestica, la datrice di lavoro aveva in essere un rapporto di lavoro con un’altra collaboratrice.
Pertanto, secondo la Cassazione, poiché la ricorrente non aveva fornito sufficienti elementi probatori a sostegno della propria domanda, la stessa non poteva essere accolta. Al fine dell’accoglimento, infatti, era necessario che la domestica fornisse dei precisi elementi dai quali fosse possibile desumere che, effettivamente, aveva cominciato a lavorare prima della data indicata nel contratto di assunzione.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla domestica, confermando integralmente la sentenza resa dalla Corte d’appello e condannando la ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.