È utile ricordare che il reato de quo è collocato tra i delitti contro la famiglia ed è disciplinato dall’art. 572 c.p., il quale – all’esito delle recenti modifiche apportate dal c.d. Codice Rosso L. n. 69/2019 – prevede la pena della reclusione da tre a sette anni per chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte.
Quanto alla condotta descritta dall’art. 572 c.p., va evidenziato che essa deve essere necessariamente abituale: pur mancando una precisa definizione normativa di maltrattamenti, secondo il granitico orientamento giurisprudenziale il reato deve considerarsi integrato, infatti, quando si accerta il reiterarsi di una pluralità di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà o della dignità della vittima (i quali, di volta in volta, possono configurarsi come lesioni, umiliazioni, offese, percosse, minacce, ingiurie o privazioni), realizzati in tempi successivi.
La Suprema Corte, infatti, con il recente provvedimento ha:
- ricordato che il reato di maltrattamenti può ritenersi integrato nel caso di una relazione caratterizzata da costanti e abituali vessazioni fisiche e psichiche da parte di un soggetto nei confronti del coniuge e della prole;
- chiarito che tra queste vessazioni psichiche può ricondursi anche il comportamento di un genitore che cerca di impedire il rapporto tra il figlio e l’altro genitore;
- ribadito il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 21133/2019), secondo il quale “integra il delitto maltrattamenti in famiglia anche la sostanziale privazione della funzione genitoriale del componente della famiglia, realizzata mediante l'avocazione delle scelte economiche, organizzative ed educative relative ai figli minori e lo svilimento, ai loro occhi, della sua figura morale";
- evidenziato che ciò vale soprattutto nel caso in cui le condotte persecutorie di un genitore nei confronti dell'altro siano poste in essere alla presenza del figlio, costretto ad assistervi sistematicamente, trattandosi di “condotta espressiva di una consapevole indifferenza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali del minore e idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest'ultimo”.
Avverso la sentenza di seconde cure aveva presentato ricorso l'imputata, deducendo – con esclusivo riferimento a quanto ora di interesse – la violazione di legge in relazione all'art. 572 c.p. per avere la Corte d’appello confermato la pronuncia di primo grado nonostante fossero stati accertati solo episodi isolati, verificatisi nell'ambito di rapporto di conflittualità tra i coniugi separati e degenerati poi mancata osservanza del provvedimento giudiziale inerente alla gestione del figlio minore, vicenda definita con il proscioglimento dell'imputata per difetto di querela.
La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto i motivi formulati inammissibili perchè in gran parte formulati per fare valere ragioni diverse da quelle previste dalla legge e perchè manifestamente infondati sulla scorta dei principi sopra riportati.