Ma cosa afferma precisamente la norma censurata?
La disposizione emanata in attuazione dei criteri fissati nella legge di delega (L. 183 del 2014, cosiddetto Jobs Act), recita: “Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.
Quindi, in base al dettato della norma, la tutela reintegratoria per effetto della quale non si perde il posto di lavoro troverebbe applicazione solo nei casi di licenziamento nullo per motivi discriminatori o nei casi per i quali è la legge stessa a prevederne espressamente la nullità.
Ma adesso la disposizione non potrà essere più applicata in questi termini, perché questa forma di tutela che consente di riavere il proprio lavoro è stata estesa anche ai casi di nullità “virtuale” di licenziamento, la cui causa cioè non è prevista in modo esplicito dalla legge.
La questione era stata sollevata dalla Corte di cassazione rimettente, che aveva censurato tale limitazione per violazione del criterio direttivo fissato dal Jobs Act, deducendo che l’esclusione delle nullità, diverse da quelle «espresse», non trovasse rispondenza nella legge di delega, la quale riconosceva la tutela reintegratoria a più largo spettro, ovvero nei casi di “licenziamenti nulli” senza distinzione alcuna.
Più in dettaglio si osserva che l’introduzione dell’avverbio «espressamente», che restringerebbe l’applicazione della tutela reintegratoria ai soli casi in cui la nullità sia individuata come tale da una specifica disposizione di legge, non sarebbe coerente né con i principi e i criteri fissati dalla legge delega, che ha invece esteso la reintegrazione ad ogni fattispecie di licenziamento nullo, senza alcuna esclusione, né con il quadro normativo generale, in quanto una distinzione tra la nullità conseguente alla violazione della norma inderogabile di protezione, pur non espressamente prevista, e la nullità espressamente prevista non è indice di una diversa gravità del vizio che dà luogo alla nullità, posto sempre a presidio di valori ritenuti fondamentali dall’ordinamento giuridico.
La Corte costituzionale ha ritenuto fondata questa censura, evidenziando che l’esplicito riferimento ai “licenziamenti nulli”, contenuto nel criterio direttivo, non contemplava la distinzione tra nullità espresse e nullità non espresse, ma una distinzione soltanto per i licenziamenti disciplinari ingiustificati.
Discostandosi da tale criterio, il legislatore delegato ha finito per introdurre una distinzione nell’ambito dei casi di nullità previsti dalla legge, differenziando secondo il carattere espresso (e quindi testuale), o meno, della nullità.
Inoltre, prevedendo la tutela reintegratoria solo nei casi di nullità espressa, ha lasciato prive di specifica disciplina le fattispecie “escluse”, ossia quelle di licenziamenti nulli sì, per violazione di norme imperative, ma privi della espressa sanzione della nullità, così dettando una disciplina incompleta e incoerente rispetto al disegno del legislatore delegante.
Tra le numerose fattispecie in cui manca una previsione “espressa” di nullità, vengono in rilievo casi come il licenziamento in violazione delle restrizioni sui licenziamenti economici durante l’emergenza COVID-19, il licenziamento durante il periodo di comporto per malattia, il licenziamento in violazione del diritto alla conservazione del posto per dipendenti con problemi di tossicodipendenza, il licenziamento motivato dall’azione legittima del dipendente di segnalare illeciti del datore di lavoro e il licenziamento contrario alle norme sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Alla luce della pronuncia della Corte costituzionale, ora, il regime del licenziamento nullo è identico, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra l’espressa sanzione della nullità, sia che ciò non sia testualmente previsto, sempre che risulti prescritto un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.