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Lavoratore, se rifiuti di svolgere mansioni inferiori, il datore di lavoro puņ licenziarti: nuova sentenza di Cassazione

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Lavoratore, se rifiuti di svolgere mansioni inferiori, il datore di lavoro puņ licenziarti: nuova sentenza di Cassazione
Cosa accade quando, in seguito a una riorganizzazione aziendale, una posizione lavorativa viene soppressa? Finora, il principio del repêchage imponeva al datore di lavoro di cercare, prima del licenziamento, eventuali posizioni alternative di pari livello per ricollocare il dipendente. Ma l’approccio al tema adesso è cambiato. Scopriamo insieme cosa dice l'ordinanza della Corte di Cassazione n. 19556/2025
Secondo la Cassazione, l’obbligo di ricollocamento non riguarda più solo le mansioni equivalenti: il datore deve estendere la ricerca anche a ruoli di livello inferiore, purché rientranti nella stessa categoria legale. Quella che potrebbe sembrare una maggiore tutela per il lavoratore si rivela, invece, una situazione complessa e potenzialmente penalizzante.
Se l’azienda offre un incarico inferiore e il dipendente rifiuta, il successivo licenziamento per giustificato motivo oggettivo diventa legittimo e difficilmente contestabile. In pratica, al lavoratore viene chiesto di scegliere tra due strade difficili: accettare un demansionamento o perdere il posto.

La scelta, per il dipendente, è tutt’altro che semplice. Analizziamola insieme.
  • Accettare il demansionamento: questa scelta significa conservare il lavoro e lo stipendio, ma al prezzo di una possibile riduzione delle responsabilità, della retribuzione accessoria e della propria crescita professionale. Un passo indietro che potrebbe avere effetti duraturi sul proprio percorso di carriera.
  • Rifiutare il demansionamento: questa scelta permette di difendere la propria posizione professionale, ma espone a un licenziamento che, a quel punto, risulterebbe perfettamente legittimo. L’azienda potrà dimostrare di aver adempiuto al proprio obbligo di ricollocamento e attribuire al rifiuto del dipendente la causa della cessazione del rapporto.
Si ricorda, in materia, l'approccio sposato dalla Suprema Corte con ordinanza n. 18904 del 10 luglio 2024, laddove si è affermato che non risulta assolto l’obbligo di “ripescaggio” ove, all’atto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, risultino esistenti nell’organico aziendale mansioni inferiori, anche a termine, e il datore non abbia effettuato alcuna offerta di demansionamento al lavoratore né, comunque, allegato e provato in giudizio che il lavoratore non rivesta le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni.

Adesso, in linea con la tendenza espressa nelle ultime sentenze, la Cassazione ricorda innanzitutto che, in tema di repêchage, l’onere della prova del datore è esteso anche alle mansioni inferiori. Pertanto, il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento, ha l’obbligo di offrire al lavoratore tutte le mansioni disponibili, prospettando anche il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, e può recedere dunque solo se il lavoratore rifiuti la diversa collocazione.

Questa nuova interpretazione del repêchage rappresenta sì una tutela per le imprese — che possono legittimare più facilmente i licenziamenti — ma impone anche obblighi più rigorosi: il datore deve condurre una verifica capillare delle posizioni disponibili, a tutti i livelli inferiori compatibili, e documentare l’effettiva offerta di ricollocamento.

Una gestione approssimativa o una mancata offerta concreta può invalidare l’intera procedura, comportando il reintegro del lavoratore. Inoltre, l’azienda deve applicare criteri coerenti e trasparenti nella selezione del personale da ricollocare, pena la possibilità che la procedura venga considerata discriminatoria o pretestuosa.

Il demansionamento, però, incontra un limite chiaro: deve restare all’interno della stessa categoria legale (dirigenti, quadri, impiegati, operai). Un impiegato, ad esempio, può essere ricollocato in mansioni impiegatizie inferiori, ma non può essere destinato a un ruolo da operaio. Questo vincolo evita soluzioni umilianti o strumentali, volte a forzare il lavoratore al rifiuto.

Insomma, nell’ambito dei licenziamenti per ragioni produttive/organizzative, l’obbligo di “ripescaggio” rappresenta un terreno alquanto minato su cui condurre il giudizio di legittimità del recesso.

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