Così si è espressa, infatti, la Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 26878 del 28 giugno 2016.
Nel caso esaminato dalla Corte, il Tribunale del riesame di Roma aveva confermato la misura cautelare della custodia in carcere, disposta nei confronti di un condomino, per il delitto di “stalking” in danno dei propri vicini di casa.
L’indagato proponeva, dunque, ricorso, in quanto, a suo, dire, non vi erano prove sufficienti a giustificare tale decisione.
In particolare, secondo il ricorrente, il giudice avrebbe ritenuto avvenuti gli eventi dedotti, unicamente sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, le quali non avevano trovato alcun altro riscontro.
La Corte di Cassazione, tuttavia, riteneva il ricorso inammissibile.
La Corte precisa, infatti, che “le dichiarazioni della persona offesa dal delitto possono essere anche da sole poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità, se sottoposte a vaglio critico circa l’attendibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva di quanto riferito”.
Nel caso di specie, la Corte osserva come il Giudice avesse “operato un sintetico ma esauriente esame della credibilità del querelante, escludendo la presenza di intenti calunniatori o di contrasti economici e valorizzando razionalmente il fatto che le sue ripetute querele, pertanto, erano state originate da una reale esasperazione derivante dalle condotte dell’indagato che aveva denunziato”.
Il giudice, quindi, aveva effettuato un preciso giudizio di attendibilità della persona offesa, le cui dichiarazioni dovevano considerarsi perfettamente credibili e coerenti, con la conseguenza che potevano, da sole, essere poste a fondamento della decisione di confermare la misura cautelare in questione.
La Cassazione, peraltro, precisa come il Tribunale avesse adeguatamente dato conto anche delle condizioni di vita della persona offesa, la quale era stata “costretta ad assentarsi dal lavoro ed assumere tranquillanti”, essendo, pertanto, evidente, che la condotta molesta del ricorrente aveva causato nella persona offesa un grave stato d’ansia, che l’aveva costretta a cambiare le proprie abitudini di vita (elemento necessario ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 612 bis c.p.).
Risultava, quindi, rispettato quanto richiesto dalla precedente giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione, la quale aveva evidenziato come “la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato d’ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto, in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata” (Cass. 14391/2012).
Pertanto, avendo il Tribunale adeguatamente motivato e argomentato la propria decisione di confermare la misura cautelare della custodia in carcere, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso, in quanto manifestamente infondato.