(massima n. 1)
L'indegnità a succedere prevista dall'art. 463 c.c., pur essendo operativa "ipso iure", non è rilevabile d'ufficio, ma deve essere dichiarata su domanda dell'interessato, atteso che essa non è uno "status" del soggetto, né un'ipotesi di incapacità all'acquisto dell'eredità, ma una qualifica di un comportamento che si sostanzia in una sanzione civile di carattere patrimoniale avente un fondamento pubblicistico e dà luogo ad una causa di esclusione dalla successione; pertanto, essendo effetto di una pronuncia di natura costitutiva, può aversi per verificata soltanto al momento del passaggio in giudicato della relativa sentenza. Se tale giudicato si forma quando sia pendente in grado di appello un diverso giudizio avente ad oggetto la pretesa di un creditore del "de cuius", la negazione della qualità di erede operata dal convenuto, in ragione della suddetta indegnità, è una mera deduzione difensiva su un fatto costitutivo della domanda attrice, l'inammissibilità della quale va valutata ai sensi dell'art. 345, comma 2, c.p.c. (Nella specie, l'art. 345 citato era applicabile "ratione temporis" nella formulazione anteriore alla novella di cui all'art. 52 della l. n. 353 del 1990). (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO MESSINA, 21/11/2013).