(massima n. 1)
In tema di azione revocatoria fallimentare, la cessione di un credito costituisce un mezzo anormale di pagamento, in quanto, sostituendo (o aggiungendo) un debitore ad un altro, lascia il credito almeno temporaneamente insoddisfatto, traducendosi quindi in un modo di estinzione dell'obbligazione solo potenziale, e comunque non di pronta soluzione, rispetto al quale risulta irrilevante l'eventuale conseguimento degli effetti sperati, trattandosi in ogni caso di un atto solutorio che non è considerato dalla legge né dalla prassi come un mezzo ordinario di pagamento. Natura eccezionale va infatti riconosciuta all'opponibilità delle cessioni al fallimento, prevista dall'art. 7 della legge 21 febbraio 1991, n. 52 e dall'art. 1, comma nono, del decreto-legge 2 dicembre 1985, n. 668, convertito in legge 31 gennaio 1986, n. 11, trattandosi di norme volte a favorire rispettivamente le operazioni di cessione in massa dei crediti d'impresa e l'assolvimento degli oneri previdenziali delle imprese. Nessun rilievo, infine, può assumere in proposito la certezza del realizzo del credito ceduto (nella specie, in quanto vantato nei confronti dello Stato), dal momento che l'anomalia dell'atto non va valutata soggettivamente, in relazione alla solvibilità maggiore o minore del debitore ceduto, ma oggettivamente, in ragione della non corrispondenza dello stesso alla tipologia degli atti che ordinariamente, per previsione normativa o alla stregua della comune prassi commerciale, si compiono per estinguere le obbligazioni, ove manchino pattuizioni coeve alla loro insorgenza che prevedano forme di adempimento diverse da quelle conosciute dalla legge.