(massima n. 1)
Ai fini della sussistenza dell'elemento psicologico del reato di diffamazione è sufficiente il dolo generico, vale a dire la consapevolezza di offendere l'onore o la reputazione di altro soggetto; ne consegue che, allorquando il carattere diffamatorio delle espressioni rivolte assuma una consistenza diffamatoria intrinseca — che non può sfuggire all'agente il quale le ha usate proprio per dare maggiore efficacia al suo dictum — non è necessaria alcuna particolare indagine sulla presenza o meno dell'elemento psicologico. (Nella fattispecie, in un manifesto che era stato stampato e poi affisso nelle bacheche di una Usl, per iniziativa dell'imputato nell'ambito della sua attività sindacale, alla parte lesa era stata attribuita la responsabilità di aver impedito il trasferimento di una infermiera “in modo ricattatorio” rifiutandosi di firmare l'ordine di servizio, “quasi a significare una rivalsa personale”, con l'ulteriore affermazione che il ruolo ricoperto dalla parte lesa medesima “non sembrava essere alla sua altezza”. La Suprema Corte, in applicazione del principio di cui in massima, ha confermato la sentenza della Corte di Appello che aveva condannato l'imputato ritenendo sussistente il reato di diffamazione a mezzo stampa).