(massima n. 1)
L'imputato di diffamazione può insistere, anche mentendo, nell'affermare la veridicità dei fatti attribuiti alla persona offesa. Egli pertanto non è punibile a titolo di calunnia in danno del soggetto diffamato mediante l'attribuzione di reati, se tale attribuzione avvenga nel corso di interrogatori resi all'autorità giudiziaria, stante la presenza di una causa di esclusione della responsabilità ai sensi dell'art. 51 c.p., purché questo legittimo esercizio del diritto di difesa si svolga, quale necessario strumento di confutazione dell'imputazione, secondo un rigoroso rapporto di connessione funzionale. Ove, invece, siffatti limiti vengano varcati, come sull'ipotesi in cui, al di fuori di ogni intento difensivo, dopo aver diffamato taluno, l'imputato assuma davanti all'autorità giudiziaria iniziative dirette a far condannare il diffamato per reato di cui egli lo sa essere innocente, si esorbita dall'esercizio del diritto di difesa, e la originaria imputazione per diffamazione concorre con la calunnia in danno del diffamato. (Nella specie, sul rilievo che gli imputati, nel corso degli interrogatori, si erano limitati a difendersi, indicando le fonti cui avevano attinto le notizie riferite, senza neppure asserirne la veridicità, la Suprema Corte, ha ritenuto che esulasse dalla loro condotta qualsiasi intento diverso da quello meramente difensivo a che perciò non potesse essere loro addebitata, oltre alla diffamazione a mezzo stampa, anche la calunnia).