(massima n. 1)
La conversione di una procedura concorsuale in un'altra, pur implicando che la procedura debba proseguire secondo le regole di quella in cui si è mutata, non equivale ad una revoca della precedente in coerenza con l'esigenza di conservazione degli effetti degli atti già compiuti e con il generale principio di economia processuale. In riferimento alla conversione del fallimento in liquidazione coatta amministrativa, prevista dall'art. 3 del decreto — legge n. 233 del 1986, (convertito in legge n. 430 del 1986), ciò comporta che, anche quando la vicenda sia dipesa da circostanze presenti fin dall'origine, e per le quali si sarebbe potuto dar subito corso alla liquidazione coatta in luogo della dichiarazione di fallimento, gli effetti degli atti legalmente compiuti nell'ambito della procedura fallimentare sono destinati a restar fermi pur dopo la conversione in liquidazione coatta. Tale principio, espressamente sancito dall'art. 3 cit., si applica anche al decreto con cui il giudice delegato abbia dichiarato esecutivo lo stato passivo, ai sensi dell'art. 97 della legge fall., nonché ai provvedimenti con i quali, ai sensi del successivo art. 103, il medesimo giudice abbia deciso sulle domande di rivendicazione, restituzione e separazione di beni mobili posseduti dal fallito. La diversa natura del procedimento di verifica del passivo e le differenti funzioni degli organi delle due procedure non esclude infatti una sostanziale equivalenza di effetti tra questi provvedimenti e quelli previsti dall'art. 209 della legge fall., con la conseguenza che essi non sono più modificabili se non in quanto, a seguito di opposizione ex art. 98, di impugnazione ex art. 100 o di istanza di revocazione ex art. 102 della legge fall., ed all'esito di un giudizio contenzioso instaurato nelle forme previste da detti articoli, si sia pervenuti ad una sentenza definitiva in proposito.