(massima n. 1)
In tema di fallimento in estensione, il principio c.d. di automaticità dettato dall'art. 148, comma terzo della legge fallimentare (a mente del quale “il credito dichiarato dai creditori sociali nel fallimento della società si intende dichiarato per l'intero anche nel fallimento dei singoli soci”) comporta, in linea generale, che la domanda di ammissione al passivo di una società di persone estenda ipso facto i suoi effetti anche allo stato passivo del socio, tale estensione comprendendo, per l'effetto, anche l'eventuale privilegio generale che assista il credito, in considerazione della causa di questo e dell'unicità del rapporto da cui sorge. Detto principio non può, per converso, operare, attesine i limiti intrinseci, né quando la prelazione non scaturisca dal medesimo rapporto, ma da un rapporto accessorio — come nel caso di pegni e/o ipoteche costituiti dalla società o dal socio —, né quando essa non riguardi genericamente i beni del debitore (sia esso la società o il socio), ma afferisca, invece, a specifici beni della società, individuati dalla legge, ovvero a specifici beni, della società o del socio, individuati con il rapporto accessorio costitutivo della garanzia reale, poiché, in tali casi, la prelazione stessa grava, in definitiva, su beni appartenenti al patrimonio soltanto di uno dei soggetti obbligati e non può, in mancanza di collegamento tra prelazione stessa e patrimonio, intendersi dichiarata anche nel fallimento di un soggetto diverso, dovendo essa, per converso, esser fatta valere nel solo stato passivo del fallimento del titolare del bene gravato (nell'affermare il principio di diritto che precede la S.C. ha così escluso che la prelazione su specifici beni, richiesta con la domanda di insinuazione al passivo della sola società, potesse legittimamente ed automaticamente intendersi come richiesta anche nello stato passivo del socio).