(massima n. 1)
In tema di imputabilità, gli artt. 88 e 89 c.p. postulano una infermità di tale natura e intensità da compromettere seriamente i processi conoscitivi e volitivi della persona, eliminando o attenuando la capacità della medesima di rendersi conto del significato delle proprie azioni e di comprenderne, quindi, il disvalore sociale, nonché di determinarsi in modo autonomo. Le infermità che influiscono sulla imputabilità sono le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie e quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche. Queste ultime sono contraddistinte da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità, come accade invece per il vasto gruppo delle «abnormità psichiche», quali le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere o della sfera affettiva, non rilevanti ai fini dell'applicabilità degli artt. 88 e 89 c.p. Ne consegue che, quando a causa di una situazione conflittuale dovuta a particolari tensioni psichiche si determini un'accentuazione di alcuni tratti del carattere del soggetto, inducendolo, come avviene nelle reazioni «a corto circuito», a tenere una condotta animale, non si può certamente parlare di malattia di mente, sicché la disposizione cui occorre riferirsi è quella di cui all'art. 90 c.p.