(massima n. 1)
La sentenza con la quale il giudice applica all'imputato la pena da lui richiesta e concordata con il P.M., pur essendo equiparata ad una pronuncia di condanna, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 445 comma 1 c.p.p., non è però ontologicamente qualificabile come tale, traendo essa origine, essenzialmente da un accordo delle parti caratterizzato, per quanto attiene l'imputato, dalla rinuncia di costui a contestare la propria responsabilità. Ciò si riflette sull'obbligo di motivazione, nel senso che il giudice, pur dovendo esporre comunque, concisamente, i motivi su cui la decisione è fondata, non è però tenuto a indicare le prove poste a base della decisione né, tanto meno, ad enunciare le ragioni per cui non ritiene attendibili le eventuali prove contrarie. La motivazione si esaurirà quindi, in positivo, nella delibazione, con concisa esposizione delle relative ragioni, della sussistenza dell'accordo tra le parti, della correttezza della qualificazione giuridica del fatto e dell'applicazione e comparazione delle eventuali circostanze, della congruità della pena patteggiata e della concedibilità della sospensione condizionale (se la richiesta dell'imputato sia stata subordinata all'applicazione di detto beneficio). In negativo, nella delibazione, della insussistenza di alcuna tra le ipotesi previste dall'art. 129 c.p.p., con obbligo di specifica motivazione, sul punto, solo nel caso in cui dagli atti o dalle dichiarazioni delle parti risultino elementi concreti in ordine alla ricorrenza di taluna fra le dette ipotesi, essendo altrimenti sufficiente la semplice enunciazione di aver effettuato, con esito negativo, la verifica richiesta dalla legge, e cioè che non ricorrono gli estremi per il proscioglimento ai sensi del citato art. 129.