(massima n. 2)
Il principio che si desume dall'art. 546 c.p.p. secondo cui, in caso di difformità, il dispositivo prevale sulla motivazione opera soltanto per la sentenza e non trova applicazione nei confronti dell'ordinanza e del decreto, non essendo prevista per tali provvedimenti una specifica forma, cosicché la motivazione adempie una funzione di chiarificazione e integrazione della decisione adottata dal giudice (nel caso di specie il Gip, dopo avere osservato nella motivazione del decreto di rinvio a giudizio che il fatto ascritto all'imputato integrava il reato di corruzione per atti conformi ai doveri di ufficio, anziché, come contestato dal P.M., per atti contrari, aveva disposto il rinvio a giudizio «per i reati di cui all'allegato capo di imputazione», cioè per il capo di imputazione così come formulato dal pubblico ministero. La Corte di cassazione, nell'enunciare il principio di cui in massima, ha ritenuto che il rinvio a giudizio fosse stato disposto per il reato di corruzione propria, come precisato nella motivazione del decreto).