(massima n. 2)
La disposizione dell'art. 568, comma quinto, c.p.p., statuendo che l'impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione ad essa data dalla parte che l'ha proposta, esclude solo che l'erroneo nomen juris possa pregiudicare l'ammissibilità di quel mezzo di impugnazione del quale l'interessato, ad onta dell'inesatta «etichetta», abbia inteso avvalersi, ma non può consentire che il giudice, modificando la reale volontà dell'interessato, sostituisca il mezzo di impugnazione voluto e inammissibilmente proposto dalla parte con quello che sarebbe astrattamente ammissibile, e però diverso da quello che la parte ha inteso in concreto proporre, dando ad esso consapevolmente la denominazione sua propria. Ed invero, l'impugnazione va dichiarata inammissibile tutte le volte che non sia riscontrabile erroneità alcuna nella denominazione attribuita dalla parte, e risulti inequivocabilmente dal contenuto dell'atto, che la parte abbia voluto utilizzare proprio lo strumento non predisposto dall'ordinamento, perché in quel caso non si tratta di inesatta qualificazione formale, suscettibile di rettifica ope judicis, ma di un'infondata pretesa da sanzionare con l'inammissibilità. (Fattispecie in cui era stato proposto ricorso per cassazione ex art. 311 c.p.p. avverso provvedimento del Gip di reiezione di istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare).