(massima n. 1)
Ai fini della valutazione dei sufficienti indizi per l'autorizzazione all'intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche nell'ambito di un procedimento per delitti di criminalità organizzata, il divieto di utilizzazione delle notizie confidenziali riferite da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, qualora gli informatori non siano stati interrogati o assunti a sommarie informazioni durante le indagini preliminari come previsto dal comma 1 bis dell'art. 203, c.p.p. (introdotto dall'art. 7 della legge 1 marzo 2001, n. 63), espressamente richiamato dall'art. 13, comma 1, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 (come modificato dall'art. 23 della legge 1 marzo 2001, n. 63), non si applica ai procedimenti in cui l'intercettazione sia già stata disposta al momento dell'entrata in vigore della nuova disciplina, dovendosi ritenere che in base al principio tempus regit actum, ribadito dall'art. 26 della legge citata, il discrimine per l'applicazione della normativa processuale sopravvenuta è rappresentato dal momento dell'assunzione della prova, non della sua valutazione, poiché in quel momento si produce l'effetto di introdurre nel processo un elemento di prova utilizzabile ai fini della decisione, come si evince dal coordinamento degli artt. 526 e 191 c.p.p. (La Corte, che in applicazione di tale principio ha ritenuto utilizzabili le intercettazioni disposte, prima dell'entrata in vigore della legge 1 marzo 2001, n. 63, sulla base di notizie confidenziali acquisite dalla polizia giudiziaria, ha escluso che l'applicazione retroattiva della nuova disciplina possa desumersi dall'art. 26 della legge citata, disposizione transitoria che è diretta ad assicurare la tutela delle esigenze di economia processuale e dell'affidamento dei destinatari delle norme abrogate e che, peraltro, ai commi 3 e 5, esclude espressamente la retroattività delle disposizioni attinenti al regime di utilizzabilità degli atti).