(massima n. 7)
Pur essendo incontestabile che l'individuazione è «un puro atto di indagine finalizzato ad orientare l'investigazione, ma non ad ottenere la prova» ed esaurisce, dunque, «i suoi effetti all'interno nella fase in cui viene compiuta» (v. Corte costituzionale, sentenza n. 265 del 1991, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità dell'art. 364 c.p.p., «nella parte in cui non prevede che la disciplina ivi contemplata si applichi all'individuazione cui debba partecipare la persona sottoposta alle indagini»), è anche vero che un regime di tal genere presuppone che sia possibile nella fase del dibattimento espletare il mezzo di prova corrispondente e cioè la ricognizione. Quando, invece, l'atto è divenuto irripetibile per il rifiuto opposto dal coimputato di rendere alcuna dichiarazione, ne è consentita l'utilizzazione ai fini previsti dall'art. 526, primo comma, c.p.p. E ciò in forza dell'art. 238, terzo comma, c.p.p., nel testo sostituito dall'art. 3, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, che autorizza «comunque» l'acquisizione della documentazione di atti che, anche per cause sopravvenute, non sono ripetibili, sia in forza del combinato disposto degli artt. 511 bis c.p.p., inserito dallo stesso decreto legge, e 511, secondo comma del codice, in un contesto normativo che, attraverso il veicolo della lettura, rende possibile l'utilizzazione a fini di prova dei detti atti. Una linea, quella ora ricordata, già tracciata dalla giurisprudenza di questa corte quando, relativamente ai risultati dell'individuazione disposta dal pubblico ministero per l'immediata prosecuzione delle indagini, ha ritenuto che, integrando nella sostanza sommarie informazioni assunte dal pubblico ministero, si tratta di atti utilizzabili anche nell'istruzione dibattimentale con la procedura delle contestazioni, qui non potuta espletare per il rifiuto opposto dai coimputati.