(massima n. 1)
Poiché la dichiarazione di illegittimità costituzionale, che presuppone l'esistenza di un vizio che inficia ab origine la norma in contrasto con il precetto costituzionale, ha efficacia invalidante, e non abrogativa, producendo conseguenze simili all'annullamento, il giudice ha l'obbligo di non applicare la norma dichiarata incostituzionale non soltanto nel procedimento in cui è stata sollevata la questione di illegittimità costituzionale ma anche, per l'efficacia erga omnes della sentenza della Corte costituzionale, in ogni altro giudizio in cui la norma stessa debba o possa essere assunta a canone di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pure se venuto in essere anteriormente alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della suddetta sentenza, perché ancora in via di scioglimento o, comunque, non produttivo di effetti giuridici definitivi, purché cioè vi siano le condizioni processuali per la sua applicazione. La sentenza della Corte costituzionale, quindi, non spiega i suoi effetti in quei processi in corso in cui il problema portato all'attenzione del giudice non sia stato sollevato e, per ragioni di rito, non sia più possibile. (Nella fattispecie, l'imputato aveva eccepito davanti alla Corte di cassazione l'incompatibilità di uno dei giudici del collegio che aveva affermato la sua responsabilità per avere il predetto concorso a pronunciare, in sede di riesame l'ordinanza confermativa della misura coercitiva. La Suprema Corte nell'affermare il principio sopra massimato, ha precisato che la questione relativa alla partecipazione al collegio di primo grado o di appello di un giudice che si sia già pronunciato nei confronti dell'imputato doveva essere sollevata, a pena d'inammissibilità, nel giudizio di merito prima del compimento delle formalità di apertura del dibattimento).