Cass. civ. n. 14177/2016
Il proprietario del terreno temporaneamente occupato a fini di ricerca archeologica, senza l'emissione del relativo decreto, non può invocare l'integrale reintegrazione del pregiudizio subito, poiché, in ragione del superiore interesse della cultura, quale valore cui tende l'ordinamento costituzionale, la proprietà su cui insistano beni di interesse storico-artistico nasce conformata, giustificandosi, per ciò solo, limitazioni al diritto dominicale, sicché tale occupazione non configura un fatto illecito della P.A., atteso che il carattere demaniale dei beni d'interesse archeologico rinvenuti comporta che la presenza sul luogo del personale della sopraintendenza, lungi dal delineare un'indebita ingerenza "in alienum", è esercizio della facoltà inerente al diritto dominicale, anche pubblico.
Corte cost. n. 194/2013
Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 1, comma 2, 2 e 4, commi 1, 2, e 3, della legge della Regione Lombardia 31 luglio 2012, n. 16, che attribuiscono alla Regione Lombardia «le attività e gli interventi di ricerca, raccolta, conservazione e valorizzazione» dei reperti mobili e dei cimeli storici che si trovano sul territorio regionale, prevedendo altresì che del rinvenimento del bene sia data «comunicazione scritta al sindaco del comune competente per territorio entro quindici giorni dal ritrovamento» e che il sindaco trasmetta le comunicazioni ricevute «alla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Lombardia per gli atti di sua competenza, entro sessanta giorni dal ricevimento». Esse sono state impugnate per contrasto con l'art. 117, commi secondo, lett. s ), e terzo, Cost., in relazione agli artt. 10 e 88 del D.Lgs n. 42 del 2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio (i quali stabiliscono che «le opere per il ritrovamento» di tutte le cose «che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico» spettano allo Stato e «sono riservate al Ministero per i beni e le attività culturali») nonché in riferimento all'art. 90 dello stesso codice (il quale, relativamente alla denuncia della scoperta dei beni d'interesse culturale, stabilisce una procedura e dei termini diversi da quelli stabiliti dall'art. 4, commi 2 e 3, della legge impugnata). Il profilo di censura che assume particolare e decisivo rilievo - sul piano logico oltre che su quello pratico - è quello concernente l'accertamento o la verifica della effettiva sussistenza dell'interesse culturale che queste cose possono presentare e, dunque, di quel carattere dal quale consegua la loro sicura appartenenza al «patrimonio culturale». È, infatti, indubitabile che soltanto la disciplina statale - specialmente nel codice dei beni culturali - possa assicurare, in funzione di tutela (e, in considerazione della unitarietà del patrimonio culturale), le misure più adeguate rispetto a questo scopo: anzitutto per la previsione di specifici procedimenti e di dettagliate procedure di ricognizione e di riscontro delle caratteristiche dei beni e poi per l'attribuzione a competenti apparati di compiti che richiedono conoscenze altamente specializzate e l'impiego di criteri omogenei, da adottare, «sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero», «al fine di assicurare uniformità di valutazione» (art. 12, comma 2). Pertanto, se la legge regionale in oggetto avesse effettivamente inteso evitare di sovrapporsi alla disciplina dello Stato, avrebbe dovuto prevederlo in maniera inequivoca: non già solo, cioè, genericamente escludendo di riferirsi - con una formula destinata a risultare quasi di stile - ai beni di cui all'art. 10 del codice dei beni culturali, ma piuttosto direttamente prevedendo di rivolgersi soltanto a quelle cose che, in quanto non riconosciute o non dichiarate di "interesse culturale", all'esito dei previsti procedimenti, risultassero, perciò, escluse, come previsto, dall'applicazione delle disposizioni del codice (art. 12, comma 4, e artt. 13 e seguenti del codice dei beni culturali), in quanto non ricomprensibili nel novero dei beni culturali di cui al predetto art. 10. La circostanza, infatti, che una specifica cosa non venga "classificata" dallo Stato come di «interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico», e dunque non venga considerata come «bene culturale», non equivale ad escludere che essa possa, invece, presentare, sia pure residualmente, un qualche interesse "culturale" per una determinata comunità territoriale: restando questo interesse ancorato, in ipotesi, a un patrimonio identitario inalienabile, di idealità e di esperienze e perfino di simboli, di quella singola e specifica comunità. In tale contesto e solo entro tali limiti, la potestà legislativa delle Regioni può dunque legittimamente esercitarsi - al di fuori dello schema tutela/valorizzazione - non già in posizione antagonistica rispetto allo Stato, ma in funzione di una salvaguardia diversa ed aggiuntiva: volta a far sì che, nella predisposizione degli strumenti normativi, ci si possa rivolgere - come questa Corte ha avuto modo di sottolineare (sentenza n. 232 del 2005) - oltre che ai «beni culturali» identificati secondo la disciplina statale, e rilevanti sul piano della memoria dell'intera comunità nazionale, eventualmente (e residualmente) anche ad altre espressioni di una memoria "particolare", coltivata in quelle terre da parte di quelle persone, con le proprie peculiarità e le proprie storie.
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Le disposizioni della Regione Lombardia che disciplinano le attività e gli interventi di ricerca, raccolta, conservazione e valorizzazione dei reperti mobili e dei cimeli storici che si trovano sul territorio regionale violano l'art. 117, commi secondo, lett. s), e terzo, Cost., in relazione agli artt. 10, 88 e 90 del D.Lgs n. 42 del 2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Soltanto la disciplina statale, infatti, può assicurare, in funzione di tutela (e in considerazione dell'unitarietà del patrimonio culturale), le misure più adeguate rispetto a questo scopo.