Cosa succede se la strada è bagnata e viscida e il motociclista, che d’altronde aveva superato i limiti di velocità, cade e si procura delle lesioni mortali? In questo caso, la responsabilità è solo dell’ente gestore della strada o deve ritenersi sussistente un concorso di colpa anche del motociclista irresponsabile?
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23212 del 13 novembre 2015, ha dato risposta a questi quesiti, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso di specie, la moglie del motociclista in questione, deceduto a seguito delle lesioni riportate nel sinistro stradale, aveva agito in giudizio nei confronti della società che gestiva la strada incriminata, al fine di ottenere una condanna della medesima al risarcimento del danno subito.
La società si difendeva, affermando che la responsabilità dell’incidente era da ricondursi, almeno in parte, alla responsabilità del conducente del mezzo, il quale non aveva rispettato i limiti di velocità sussistenti in quel tratto di strada.
Inoltre, la società evidenziava di aver già corrisposto un’ingente somma di denaro a titolo risarcitorio, la quale doveva ritenersi integralmente satisfattiva di ogni pretesa risarcitoria.
In sede di appello, la Corte rilevava come, effettivamente, la responsabilità per il sinistro mortale doveva essere ripartita al 50% tra le parti in causa: infatti, per il 50% sarebbe stato responsabile il motociclista, che non aveva rispettato i limiti di velocità, mentre per il restante 50% doveva ritenersi responsabile l’ente gestore della strada, il quale, ai sensi dell’art. 2051 c.c., è responsabile della strada che lo stesso aveva in “custodia” (avendone un potere di vigilanza e controllo).
Occorre ricordare, infatti, che ai sensi di tale disposizione, la responsabilità per i danni derivanti dalla cosa che un soggetto ha in custodia, avendo natura oggettiva, può dirsi esclusa solo in presenza di un “caso fortuito”, che interrompa il nesso di causalità tra cosa in custodia ed evento dannoso: in particolare, deve trattarsi di un evento del tutto imprevisto, imprevedibile e incontrollabile, idoneo, da solo, a causare il danno.
Avverso la decisione della Corte d’Appello, veniva proposto ricorso per Cassazione, il quale, tuttavia, veniva rigettato.
Infatti, la Cassazione riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dalla Corte d’Appello, la quale, “con una sentenza bene argomentata e priva di vizi logici, ha ricostruito la dinamica dell’incidente, evidenziando che lo stesso era da ricondurre a responsabilità della vittima, colpevole di aver tenuto una velocità eccessiva e di aver condotto la propria moto secondo una traiettoria non rispettosa della destra, nonché della società (che gestiva la strada), la quale, pur avendo realizzato nel tratto in questione alcuni lavori finalizzati ad evitare l’affioramento dell’acqua sul piano autostradale, tuttavia non era riuscita a risolvere in modo definitivo quel problema”.
Quanto, in particolare, alla questione relativa alla responsabilità per “cosa in custodia”, di cui all’art. 2051 c.c., la Corte osserva come tale responsabilità “prescinde dall’accertamento del carattere colposo dell’attività o del comportamento del custode e ha natura oggettiva, necessitando, per la sua configurabilità, del mero rapporto eziologico tra cosa ed evento”.
Ricorda la Corte, inoltre, come tale responsabilità possa dirsi esclusa solo per “caso fortuito, che può esssere rappresentato – con effetto liberatorio totale o parziale – anche dal fatto del danneggiato, avente un’efficacia causale tale da interrompere del tutto il nesso eziologico tra la cosa e l’evento dannoso, o da affiancarsi come ulteriore contributo utile nella produzione del danno”.
Nel caso di specie, dunque, la Corte d’Appello aveva del tutto correttamente ripartito la responsabilità al 50%, riconoscendo l’obbligo di custodia in capo alla società che gestiva la strada ma dando rilievo, altresì, alla responsabilità della vittima, che procedendo a velocità troppo elevata, aveva contribuito a causare l’evento dannoso.
Di conseguenza, la Cassazione, ritenendo di dover aderire alle argomentazioni e alle conclusioni cui era giunta la Corte d’Appello, in sede di secondo grado di giudizio, rigetta il ricorso proposto e conferma la sentenza resa.