La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 56277 del 18 dicembre 2017, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, un soggetto era stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 256 del d. lgs. n. 152 del 2006 (gestione abusiva di rifiuti), in quanto questi, nella sua qualità di “titolare di un'impresa individuale avente ad oggetto la sistemazione di parchi, giardini ed aiuole”, aveva, in più occasioni, trasportato, abbandonato e bruciato su un terreno dei “rifiuti vegetali altrove prodotti in assenza di valido titolo abilitativo”.
L’imputato aveva, dunque, deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza a lui sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, il giudice avrebbe errato nel pronunciare la sentenza di condanna, non essendo stato dimostrato “che i materiali scaricati e bruciati provenissero da terreni diversi da quello in cui tali operazioni venivano effettuate”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, riteneva di dover aderire alle conclusioni cui era giunto il giudice del precedente grado di giudizio, rigettando il ricorso proposto dal condannato, in quanto infondato.
Evidenziava la Cassazione, in proposito, che, dagli accertamenti effettuati in corso di causa, era emerso che il Corpo Forestale dello Stato aveva avuto notizia degli episodi di abbandono e bruciamento di rifiuti vegetali oggetto di contestazione.
Osservava la Cassazione, inoltre, che, dalle indagini svolte era emerso che il terreno in questione era stato affidato dal proprietario proprio all’imputato, affinchè questi lo tenesse in ordine e lo sorvegliasse e “con facoltà di accogliere e trattenere i frutti prodotti dagli alberi ivi esistenti”.
Evidenziava la Corte, inoltre, che la condotta contestata all’imputato era stata rilevata attraverso una “foto-trappola”, vale a dire, “da un apparecchio fotografico attivato da un sensore di movimento”.
Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione riteneva che il Tribunale avesse correttamente disposto la condanna dell’imputato, dal momento che il materiale vegetale bruciato “non era prodotto sul terreno ove avveniva la combustione ed, inoltre, questa non era evidentemente finalizzata al reimpiego come concime o ammendante dei residui, bensì alla mera eliminazione del rifiuto”.
La Corte, dunque, rigettava il ricorso proposto dal condannato, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.