Nel caso esaminato dal Tribunale, due coniugi avevano chiesto consensualmente la separazione, che veniva omologata.
Successivamente, la moglie iniziava una relazione con un altro uomo, il quale si trasferiva stabilmente nella casa coniugale.
Il marito, pertanto, si rivolgeva al Tribunale al fine di ottenere il divorzio, chiedendo, inoltre, che il giudice revocasse l’assegnazione della casa coniugale e l’assegno di mantenimento disposti in favore della moglie.
Secondo il ricorrente, infatti, non sussistevano più i presupposti per la concessione di tali benefici, anche in considerazione delle intervenute modifiche nel reddito delle parti.
Il marito, infine, chiedeva che il Tribunale ponesse a carico della moglie l’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni, versando un contributo pari ad Euro 133,00 per ognuno.
La moglie non si opponeva alla domanda di divorzio, contestando, tuttavia, quanto affermato dal marito in ordine all’asserita convivenza con un altro uomo, ed opponendosi, inoltre, alla richiesta di revoca dell'assegno di mantenimento, stante la “la sostanziale mancanza di redditi da parte della beneficiaria, la quale continuava a svolgere, come pure aveva fatto in epoca matrimoniale, soltanto lavori saltuari ed occasionali”.
Di conseguenza, la moglie chiedeva al giudice di obbligare il marito a corrisponderle un assegno divorzile, quantificandolo in € 250,00 mensili, ed assegnandole la casa coniugale in qualità di genitore affidatario dei figli maggiorenni ma non economicamente indipendenti.
La donna chiedeva, infine, che il marito fosse condannato a corrispondere il mantenimento di ciascuno dei figli per complessivi € 300,00.
Il Giudice, nel pronunciarsi sulle domande svolte, osservava, in via preliminare, la fondatezza della domanda di divorzio, sussistendo tutte le condizioni richieste dall’art. art. 3 n.2 lett. B) L.898/1970 e successive modificazioni, essendo “ormai venuta meno in modo irreversibile la comunione di vita spirituale e materiale tra i coniugi”.
Quanto alla sussistenza dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni, il Tribunale precisava che “l'obbligo di mantenimento che incombe sui genitori non cessa con il raggiungimento della maggiore età del figlio, ma permane sino al conseguimento da parte dello stesso della piena autonomia economica” e che, tuttavia, tale diritto non può essere riconosciuto in caso di “inerzia o di rifiuto ingiustificato di occasioni di lavoro da parte del figlio”, come confermato anche dalla Corte di Cassazione, con le sentenze n. 4765/2002, n.1830/2011, n. 7970/2013, n. 2289/2001 e n. 11828/2009.
Le relative valutazioni, chiarisce il Tribunale, devono essere effettuate “caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescente in rapporto all'età dei beneficiari, anche al fine di limitare il più possibile le ipotesi di pretese di figli maggiorenni protratte oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura”.
Di conseguenza, secondo il giudice, tale diritto non può più essere riconosciuto “con il raggiungimento di un'età nella quale il percorso formativo, nella normalità dei casi, è ampiamente concluso e la persona è da tempo inserita nella società”.
Nel caso di specie, secondo il Tribunale, sussistevano i presupposti “per dichiarare l'estinzione del diritto al mantenimento” della figlia, ormai trentenne, dal momento che, dall’istruttoria effettuata in corso di causa, era emerso che la medesima avesse “rifiutato la possibilità lavorativa offertale dal padre a causa della esiguità della retribuzione nonché per successiva mancata assunzione regolare della medesima”.
Pertanto, era evidente che la figlia era stata “posta nelle concrete condizioni di procurarsi un lavoro” ma vi aveva “immotivatamente rinunciato, benché avesse abbandonato gli studi intrapresi dopo il conseguimento della licenza media e non fosse in possesso una particolare qualifica professionale”.
Per quanto riguardava, invece, l’altro figlio maggiorenne, il giudice riteneva che il medesimo avesse diritto al mantenimento, in quanto egli, malgrado avesse, in passato, svolto attività lavorativa, era “tuttavia incapace di rendersi, attualmente, economicamente indipendente, a causa delle gravi patologie di cui è affetto, segnatamente a causa di una pregressa e perdurante condizione di tossicodipendenza”.
Secondo il Tribunale, dunque, era “fondato il suo diritto a percepire il mantenimento (…) apparendo evidente la impossibilità del giovane di poter efficacemente reperire e preservare un rapporto di lavoro, e necessitando, dunque, tuttora dell'apporto morale ed economico da parte di entrambe le figure parentali, anche in ragione delle cure e delle terapie occorrenti per superare le problematiche da cui è allo stato affetto”.
Tenuto conto, quindi, delle esigenze del figlio e della situazione reddituale dei genitori, il Tribunale riteneva equo quantificare il contributo al mantenimento nella somma di € 150,00 mensili, ovvero solo per un figlio.
Quanto all’assegnazione della casa familiare, il Tribunale riteneva che, considerata la collocazione del figlio non economicamente indipendente presso la madre, fosse opportuno assegnare a quest’ultima l’immobile, “atteso pure che (…) il figlio predetto, a causa delle patologie diagnosticate, riscontra evidenti difficoltà ad allontanarsi per lunghi periodi dal suo ambiente, che risulta appunto essere costituito essenzialmente dall'immobile adibito a residenza familiare”.
Infine, circa la richiesta di assegno divorzile, avanzata dalla moglie, il Tribunale evidenziava che essendo stata provata “la costituzione di una stabile convivenza more uxorio”, non poteva essere riconosciuto il diritto dell’ex moglie all’assegno divorzile.
Infatti, anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 6855 del 2015) ha precisato che “ove tale convivenza assuma dunque i connotati di stabilità e continuità, e i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio)”, sussistono i presupposti per revocare il diritto all’assegno divorzile.