Certo bisogna stare attenti, perché non sempre il destinatario della nostra “parolaccia” è disponibile a lasciar correre, catalogando come semplice intemperanza il nostro parlato colorito.
E nelle nostre vite stressate, e sempre di corsa, dove l’esplosione di nervi è dietro l’angolo, può essere utile sapere quando tenere a freno la lingua e quando poter invece lasciarci andare a qualche epiteto “liberatorio”.
Dunque vediamo quando le nostre parolacce dirette all’indirizzo di qualcuno possono far scattare la richiesta di risarcimento del danno per ingiuria o diffamazione, quando potrebbero configurare il turpiloquio e quando, invece, sono ritenute insulti che si possono dire.
Prima di liberare le parolacce, soffermiamoci sulla differenza tra ingiuria e diffamazione, per poi vedere cosa significa invece "turpiloquio".
La diffamazione è l’offesa pronunciata in assenza della vittima davanti a più persone (almeno due).
L’ingiuria è invece rivolta direttamente alla vittima, in un colloquio a due, a prescindere dal fatto che ad assistere possano essere anche altre persone.
Entrambe le condotte possono verificarsi mediante l’espressione di offese verbali o scritte, anche con l’utilizzo di mezzi telematici.
C’è però un’altra importante e sostanziale differenza: la diffamazione è reato, l’ingiuria invece è stata depenalizzata nel 2016.
La parte offesa, in caso di diffamazione, può depositare una querela ai carabinieri o direttamente alla Procura della Repubblica; sarà poi la Procura a decidere se chiedere l’archiviazione (e dunque la querela non avrà seguito) o esercitare l’azione penale (e in questo caso si dà il via al processo).
Nel secondo caso, la persona offesa può anche ottenere il risarcimento del danno subito costituendosi parte civile nel giudizio a mezzo di un avvocato.
Nel caso dell’ingiuria, invece, l’offeso può far valere il proprio diritto solo in sede civile. La prova è molto più difficile: se non ci sono supporti informatici che contengono le offese scritte o registrate e nessuno ha assistito al fatto sarà difficile, ad esempio, dimostrare l’illecito consistito in una condotta verbale.
In ogni caso, se il giudice dovesse ritenere raggiunta la prova, condannerà il colpevole al risarcimento degli eventuali danni all’onore dell’attore e a una sanzione da 200,00 a 12.000,00 euro.
Se, in sintesi, offendo il mio capo in una mail, senza altre persone in copia, commetto una ingiuria, che non è più reato; se in copia ci sono altri indirizzi, commetto invece il reato di diffamazione.
E il turpiloquio?
Anche il turpiloquio, ossia utilizzare un linguaggio contrario alla pubblica decenza in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è stato depenalizzato. Ciò non toglie che gridare una serie di parolacce forti in mezzo ad una piazza, ad esempio, può far configurare un illecito amministrativo, punito con una sanzione da 5mila a 10mila euro.
Fatto questo ripasso, vediamo, oggi, secondo le pronunce giurisprudenziali degli ultimi anni, quali sono le parolacce che hanno, per così dire, il via libera.
Coglione!
Cavoli, starai pensando, domani vado in ufficio e mi sfogo con il capo. Aspetta, la Cassazione ha stabilito che si può dire solo nel senso di scemo, sprovveduto, ingenuo, deficiente (Cass. sent. n. 34442/17).
Vaffanculo!
Questo epiteto è proprio entrato nel lessico di chiunque, infatti la Cassazione, in una sentenza del 2007, ha ribadito che sia ormai di uso comune, quindi non è neanche un’ingiuria.
Rompipalle!
Non ti offendere, se con questo epiteto vogliono intendere che sei un seccatore (Cass. sent. 22887/13).
Cazzate!
Le diciamo tutti, prima o poi..
Anche qui la Cassazione sottolinea che, pur trattandosi di una parola irrispettosa, è entrata a far parte del lessico corrente (Cass. sent. 49423/09).
Mi hai rotto i coglioni!
Anche in questo caso non ti offendere! Pensa piuttosto se con il tuo comportamento stai arrecando fastidio. Per la Cassazione (sent.19223/13), infatti, questa espressione non è offensiva, se utilizzata per dire a qualcuno di non infastidire.