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Distintivo di polizia contraffatto

Distintivo di polizia contraffatto
Commette reato chi esibisce e utilizza un distintivo della Polizia contraffatto.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34894 del 16 agosto 2016, ha fornito alcune interessanti precisazioni in ordine ai reati di “possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi” e di “possesso di segni distintivi contraffatti”, di cui agli artt. 497 bis e ter codice penale.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato un imputato “alla pena di mesi dieci e giorni venti di reclusione, per aver illecitamente detenuto e fatto uso di un distintivo contraffatto della Polizia di Stato, che esibiva spacciandosi per agente di Polizia”, intimando ad una signora di spostare la propria autovettura, minacciandola, altrimenti di farla rimuovere.

Avverso tale sentenza, l’imputato decideva di proporre ricorso per Cassazione, lamentando che la Corte d’appello aveva erroneamente “escluso l’ipotesi di grossolanità del distintivo contraffatto esibito dall’imputato”. La grossolanità, invece, secondo il ricorrente, emergeva dalle stesse dichiarazioni della persona offesa, la quale aveva affermato, in sede di querela, di essere accorta immediatamente della falsità del distintivo, tanto che la stessa si era subito recata presso la Polizia Municipale proprio per sporgere denuncia.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso.

Secondo la Cassazione, infatti, il ricorrente, nell'esporre le proprie censure, non aveva tenuto in considerazione il fatto che il giudice di secondo grado aveva rilevato che, dall’esame del solo distintivo contraffatto, non poteva ritenersi “emergente alcun sospetto sull’autenticità di esso”.

La Corte d’appello, in particolare, aveva evidenziato che la persona offesa “non aveva alcuna possibilità di riconoscere la falsità del distintivo nel momento e nelle circostanze in cui le era stato esibito dall’imputato, atteso che il sospetto sull’autenticità del distintivo era sorto innanzitutto per il comportamento tenuto dal falso poliziotto, che non si era qualificato correttamente, non comunicando nome, cognome e grado, come richiestogli e, poi, per la custodia apparsa troppo consumata per essere vera, agli occhi della malcapitata”.

Di conseguenza, secondo la Corte di Cassazione, la Corte d’appello aveva dato corretta applicazione al principio espresso dalla medesima Cassazione, con la sentenza n. 3556 del 31 ottobre 2014, in base al quale “integra il delitto di cui all’art. 497 ter, comma primo, seconda parte, codice penale (possesso di segni distintivi contraffatti), la detenzione di un distintivo delle forze dell’ordine (nella fattispecie in esame, della Polizia di Stato) che, pur senza riprodurre fedelmente l’originale, ne simuli la funzione, sia cioè idoneo a trarre agevolmente in inganno il cittadino sulle qualità personali di colui che ne fa uso e sul potere connesso all’uso del segno stesso”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, condannando il medesimo al pagamento delle spese processuali.

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