(massima n. 1)
La sentenza pronunciata a norma dell'art. 444 c.p.p., che disciplina l'applicazione della pena su richiesta dell'imputato, non è tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini; tuttavia, nell'ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato (nella specie, come fatto idoneo a consentire il licenziamento senza preavviso), ben può il giudice di merito, nell'interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, (interpretazione a lui esclusivamente rimessa e incensurabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione e rispettosa dei canoni legali di ermeneutica contrattuale), ritenere che gli agenti contrattuali, nell'usare l'espressione «sentenza di condanna», si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. «di patteggiamento» ex art. 444 c.p.p., atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l'accusa dell'onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena. (Nella specie, la sentenza della cassazione ha confermato la sentenza di merito che, in relazione al c.c.n.l. per i dipendenti delle Poste Italiane prevedente il licenziamento in tronco in caso di sentenza penale di condanna, aveva rigettato l'impugnativa di licenziamento da parte dei lavoratori che, imputati di rapina in banca, avevano «patteggiato» la pena, senza perciò pervenire ad una sentenza di condanna in senso tecnico).