(massima n. 1)
Il recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro ovvero delle dimissioni rassegnate dal lavoratore; pertanto, mentre è possibile che le parti contraenti collettive od individuali, assegnino a determinati comportamenti di uno dei soggetti del rapporto il significato e l'efficacia dell'atto unilaterale di recesso ed, in particolare per il lavoratore, delle dimissioni, deve invece escludersi la possibilità di introdurre un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell'intenzione di recedere, che sia svincolato dall'effettiva volontà della parte e che non ammette la possibilità di prova contraria, giacché in tal caso il patto costituirebbe in realtà un'inammissibile ed invalida clausola risolutiva espressa del rapporto. (Nella specie la S.C. ha cassato la pronuncia del giudice del merito il quale, in applicazione dell'art. 67 C.C.N.L. per i dipendenti di aziende di credito, aveva ritenuto che l'assenza protrattasi ingiustificatamente per oltre quindici giorni del lavoratore — che solo successivamente, e quindi tardivamente, aveva comunicato al datore di lavoro di essere impossibilitato alla prestazione di lavoro per malattia — dovesse qualificarsi come dimissioni del lavoratore medesimo).