(massima n. 2)
Nella disciplina anteriore all'entrata in vigore dell'art. 37-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall'art. 7 del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, pur non esistendo nell'ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l'emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale. In riferimento all'ipotesi in cui una società estera titolare di partecipazioni azionarie abbia costituito sulle stesse un diritto di usufrutto in favore di una società residente nel territorio dello Stato, al fine di eludere il regime fiscale previsto dall'art. 27, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 per gli utili spettanti a soggetti non residenti (cosiddetto "dividend stripping"), l'applicazione del predetto principio si traduce in un difetto di causa che dà luogo alla nullità del contratto, non conseguendo dallo stesso alcun vantaggio economico per l'usufruttuario, ma solo un risparmio fiscale per il nudo proprietario. Tale mancanza di ragione, che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali, comporta l'inefficacia del contratto nei confronti del fisco, escludendo il credito d'imposta previsto per l'usufruttuario dei titoli dall'art. 14 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo anteriore all'integrazione apportatavi dall'art. 7-bis del d.l. 9 settembre 1992, n. 372, conv. con modificazioni nella legge 5 novembre 1992, n. 429). (rigetta, Comm. Trib. Reg. Torino, 21 Dicembre 1999).