(massima n. 1)
L'imposta sul patrimonio netto delle imprese, istituita dall'art. 1 del d.l. 30 settembre 1992, n. 394 (convertito nella legge 26 novembre 1992, n. 461) - e successivamente abolita dall'art. 36 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, con effetto dall'1 gennaio 1998 -, non contrasta con la direttiva del Consiglio 17 luglio 1969, n. 69/335/CEE (modificata dalla direttiva 10 giugno 1985, n. 85/303/CEE), la quale, come statuito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (sent. 27/10/1998, in causa C-4/97, ed ord. n. 1573/2001, nelle cause riunite C-279/99, C-293/99, C-296/99, C-330/99 e C-336/99), non osta alla riscossione, a carico delle società di capitali, di un'imposta come quella in esame, nemmeno quando questo tributo colpisce la componente del patrimonio netto costituita dal capitale sociale annualmente rilevato in bilancio, ed anche se tale componente sia stata in precedenza assoggettata all'imposta sui conferimenti. Né può ritenersi non manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale della normativa, per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., in quanto l'imposta, istituita per fronteggiare esigenze finanziarie transitorie e rimasta in vigore, in forza delle proroghe disposte, per sei anni, ha tuttavia conservato il carattere di manovra finanziaria di carattere straordinario, ha coinvolto tutte le società e gli enti di cui all'art. 87, lettere a) e b), del t.u.i.r., ed ha tenuto conto del principio di capacità contributiva, essendo stati previsti degli specifici limiti di applicabilità (art. 3, commi 2 e 3, del d.l. n. 394 del 1992). (cassa e decide nel merito, Comm. Trib. Reg. Milano, 3 Ottobre 2003).