(massima n. 1)
La rinnovazione del contratto di locazione, benché abbia effetto dalla data della prima scadenza, quante volte dipenda dalla mancata disdetta entro un certo termine, trova la sua fonte nella legge che regola il rapporto al momento in cui quel termine scade ed è, per converso, impedita dalla manifestazione di una contraria volontà del locatore, secondo le regole poste dalla disciplina vigente al momento in cui quella volontà viene manifestata. Da quell’atto negoziale del locatore (o dalla mancanza di quell’atto in relazione alla disciplina legale), alla cui scelta è in definitiva correlata la sorte del contratto, esclusivamente dipende l’effetto impeditivo della prosecuzione del rapporto, ovvero la rinnovazione del contratto, il cui presupposto è dunque in ogni caso legato a una situazione definitivamente cristallizzatasi alla data di scadenza del termine per la comunicazione della disdetta da parte del locatore. Costituisce, infatti, principio generale che, salve diverse disposizioni derogatorie da parte del legislatore, le condizioni di efficacia e gli effetti di un atto sono disciplinati dalla legge, in vigore al momento in cui esso è adottato, al pari degli effetti della sua mancanza. (Nella specie la disdetta era stata ritualmente intimata il 28 dicembre 1998 a norma dell’articolo 3 della legge 27 luglio 1978 n. 392, per la scadenza del 31 dicembre 2002. In applicazione del principio di cui sopra la Suprema corte ha escluso che potesse affermarsi la applicabilità al contratto, della sopravvenuta legge 9 dicembre 1998 n. 431, entrata in vigore il 30 dicembre 1998 e, quindi, successivamente alla disdetta, con conseguente inefficacia della già intimata disdetta per non essere stata accompagnata dall’allegazione di alcuna delle situazioni tassativamente previste dall’articolo 3, della legge n. 431 del 1998 come legittimanti l’esercizio del diniego del rinnovo).