(massima n. 1)
In tema di contenzioso tributario, la conciliazione giudiziale, prevista dall'art. 48 del D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546, costituisce un istituto deflativo di tipo negoziale, attinente all'esercizio di poteri dispositivi delle parti, che postula la formale contestazione della pretesa erariale nei confronti dell'Amministrazione e l'instaurazione del rapporto processuale con l'organo giudicante, e si sostanzia in un accordo tra le parti, paritariamente formato, avente efficacia novativa delle rispettive pretese, in ordine al quale il giudice tributario è chiamato ad esercitare un controllo di legalità meramente estrinseco, senza poter esprimere alcuna valutazione relativamente alla congruità dell'importo sul quale l'Ufficio e il contribuente si sono accordati. Pertanto, l'errore di calcolo in cui le parti siano incorse nella definizione dell'imponibile o nella determinazione dell'entità del prelievo ricavabile dai parametri di tassazione, in tanto può dar luogo a rettifica, in quanto ricorrano i presupposti di cui all'art. 1430 c.c. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva accolto il ricorso proposto dal contribuente avverso un avviso di accertamento delle imposte sul reddito, emesso nonostante l'intervenuta conciliazione, ritenendo che l'errore di calcolo fatto valere dall'Amministrazione non fosse riconoscibile dal ricorrente, in quanto dal verbale di conciliazione non risultavano i dati in base ai quali doveva computarsi il prelievo).