(massima n. 1)
Deve ritenersi fondata la censura di manifesta illogicitā della motivazione della sentenza di condanna per il c.d. furto di cose di antichitā e d'arte (art. 67 della legge 1 giugno 1939 n. 1089), laddove la sentenza ha tratto argomento per la colpevolezza dal fatto che l'imputato non ha fornito la prova della legittimitā della provenienza di oggetti archeologici rinvenuti in suo possesso. Invero, se dal fatto che le disposizioni in materia, che accanto alla appartenenza allo Stato delle cose d'antichitā e d'arte ritrovate prevedono un possesso privato di tali cose, si dovesse ricavare la clausola implicita che per i beni archeologici la proprietā privata č riconosciuta come tale solo se provata (e nella generalitā dei casi di proprietā diffusa occorrerebbe provare che essa risale ad epoca anteriore al 1909), il sistema violerebbe l'art. 42 Cost., in quanto ablativo delle cose mobili di proprietā privata per la cui legittimazione richiederebbe una prova impossibile, ed altresė l'art. 24 Cost. perché, quando il possesso costituisce un addebito, la gravitā dell'onere probatorio imposto renderebbe impossibile il diritto di difesa. Il sistema, pertanto, letto in aderenza ai precetti costituzionali, non consente che venga posta a carico del cittadino la prova della legittimitā del possesso di oggetti archeologici, ma č l'accusa che deve dare la prova della illegittimitā del possesso. (Nella specie la Corte ha rigettato il ricorso ritenendo la condanna fondata in modo autonomo su altre argomentazioni relative al fatto, chiuse con il rilievo che il ricorrente aveva omesso qualsiasi allegazione sulla legittimitā del possesso, a fronte di vari elementi indizianti).