(massima n. 1)
Il giudice di rinvio è vincolato dalla sentenza di cassazione che dispone il rinvio anche nell'ipotesi in cui sia stato riscontrato un vizio della motivazione, pur potendo procedere ad una rivalutazione dei fatti già accertati ed indagare, eventualmente, su altri fatti, al fine di un apprezzamento complessivo in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata, tenendo conto, peraltro, delle preclusioni e decadenze già verificatesi. Nell'attività di controllo relativa all'uniformazione del giudice di rinvio al dictum enunciato dalla Corte di cassazione, ove sia in discussione, in rapporto all'entità del petitum concretamente individuata dal giudice di rinvio, la portata del decisum della sentenza di cassazione, il giudice di legittimità deve interpretare la propria sentenza in relazione alla questione decisa e al contenuto della domanda proposta in giudizio dalla parte, con la quale la pronuncia rescindente non può essersi posta in contrasto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza emessa in sede di rinvio e relativa ad un nuovo esame delle valutazioni concernenti la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, rilevando la conformazione del giudice di rinvio all'ambito di rivalutazione dei fatti della causa individuato in sede di cassazione, con il quale si era stabilito che il diritto costituzionale di libertà sindacale non consentiva di considerare inadempimento del contratto di lavoro il comportamento funzionale al suo esercizio, ferma restando, però, la necessità di considerare anche la tutela di altri diritti fondamentali la cui consistenza necessariamente limitava i modi di esercizio dell'attività sindacale, ragion per cui doveva ritenersi che il giudice del merito si era attenuto al dictum della Corte di cassazione, avendo correttamente proceduto ad un bilanciamento degli interessi in conflitto, concludendo nel senso che la legittima attività di proselitismo e di concorrenza rispetto ad altre organizzazioni sindacali, nonché la contestazione di scelte dell'impresa, non giustificava l'adozione di espressioni diffamatorie di singole persone, che andavano, perciò, valutate come inadempimento degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro e che potevano legittimare il licenziamento per giusta causa del lavoratore inadempiente).