(massima n. 1)
A seguito delle modifiche apportate all'istituto dell'arbitrato dalla novella del 1994, tanto all'arbitrato rituale che a quello irrituale va oggi riconosciuta natura privata, configurandosi in ogni caso la devoluzione della controversia ad arbitri come rinuncia all'azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato per effetto di un'opzione per la soluzione della controversia sul piano privatistico (alla stregua, cioè, di un dictum di soggetti privati). Pertanto, la differenza tra le due fattispecie di arbitrato non può più fondarsi sul rilievo che, nel primo, e non nel secondo, le parti abbiano demandato agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice, dovendosi, per converso, ravvisare la differenza nella circostanza che, nell'arbitrato rituale, le parti stesse intendono pervenire alla pronuncia di un lodo suscettibile di esecutività onde produrre gli effetti di cui all'art. 825 c.p.c., con l'osservanza del regime formale del procedimento arbitrale, mentre in quello irrituale esse intendono affidare all'arbitro la soluzione di una controversia attraverso uno strumento strettamente negoziale – mediante, cioè, una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibili alla loro volontà –, impegnandosi, per l'effetto, a considerare la decisione degli «arbitri» come espressione, appunto, di tale personale volontà. Ne consegue l'irrilevanza dell'uso di espressioni tecniche come quelle di «controversia» «giudizio» e «questioni» che, pur essendo peculiari del procedimento giurisdizionale, possono essere utilizzate anche in riferimento all'arbitrato irrituale, per mera scelta lessicale dei contraenti, onde indicare in maniera appropriata gli eventuali contrasti di fatto che possano insorgere tra loro, e la necessità che vengano sottoposti al vaglio di un collegio arbitrale. (Nella specie, la S.C. ha qualificato l'arbitrato come irrituale, rilevando che nella clausola compromissoria le parti avevano espressamente dichiarato di accettare il lodo «come espressione della loro stessa volontà» ed avevano attribuito agli arbitri il potere di giudicare secondo equità e senza alcun vincolo formale di espressione del loro giudizio, fissando un brevissimo termine per la decisione e dispensandoli dal deposito del lodo in cancelleria).