(massima n. 1)
La tradizionale bipartizione tra le funzioni di procuratore ed avvocato – le une dirette ad assicurare la rappresentanza della parte in giudizio, le altre a garantirne la difesa tecnica e professionale –, normativamente individuate dalle locuzioni rispettive di “ministero di difensore” e di “assistenza di difensore”, che figurano nel codice di rito, non è stata superata dall'art. 6 della legge n. 27 del 1997, che, abrogando l'art. 5 del R.D.L. 1578 del 1933, convertito nella legge n. 36 del 1934, ed abolendo la distinzione professionale tra avvocato e procuratore, ha solo eliminato la regola della cosiddetta esclusività territoriale della rappresentanza processuale, ferma restando la necessità della procura, ex art. 83, primo comma c.p.c., per il conferimento del ministero di difensore. Pertanto, in caso di dubbio sulla effettiva portata della procura, su di essa va necessariamente condotta un'indagine, da espletarsi comunque secondo il principio della conservazione dell'atto, di cui è espressione l'art. 159 c.p.c., attribuendo, cioè, alla parte la volontà che consenta all'atto di procura di produrre i suoi effetti. (Alla stregua di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione della Corte di merito, la quale aveva ritenuto affetto da nullità l'atto introduttivo del giudizio, in quanto esso non contemplava il potere di rappresentanza processuale della parte, ed il mandato rilasciato a margine dello stesso recava la locuzione “nomino difensori”, in tal modo riferendosi, secondo la erronea opinione della Corte d'appello, esclusivamente all'incarico della difesa, che, invece, non richiede l'espresso conferimento della procura; sicché alla citata locuzione non poteva che attribuirsi il valore di conferimento del ministero di difensore).