(massima n. 1)
In tema di contratti bancari, il «bonifico» (ossia l'incarico del terzo dato alla banca di accreditare al cliente correntista la somma oggetto della provvista) costituisce un ordine (delegazione) di pagamento che la banca delegata, se accetta, si impegna (verso il delegante) ad eseguire; da tale accettazione non discende, dunque, un'autonoma obbligazione della banca verso il correntista delegatario, trovando lo sviluppo ulteriore dell'operazione la sua causa nel contratto di conto corrente di corrispondenza che implica un mandato generale conferito alla banca dal correntista ad eseguire e ricevere pagamenti per conto del cliente, con autorizzazione a far affluire nel conto le somme così acquisite in esecuzione del mandato. Ne deriva che, secondo il meccanismo proprio del conto corrente, la banca, facendo affluire nel conto passivo il pagamento ricevuto dall'ordinante, non esaurisce il proprio ruolo in quello di mero strumento del terzo, ma diventa l'effettiva beneficiaria della rimessa, con l'effetto ad essa imputabile (se l'accredito intervenga nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento, ricorrendo il requisito soggettivo della revocatoria fallimentare) di avere alterato la condicio creditorum (nella specie, la società, poi fallita, aveva ottenuto da un istituto di credito fondiario un mutuo da utilizzare per estinguere altre passività; la stessa aveva, dunque, accreditato una parte della stessa somma mutuata su un conto corrente di corrispondenza acceso presso una banca; la sentenza impugnata aveva revocato quell'accreditamento, ritenendolo un pagamento posto in essere in violazione della par condicio creditorum. La S.C., nell'affermare il principio di diritto massimato, ha respinto la tesi della banca, la quale sosteneva che il proprio credito nei confronti della fallita al momento dell'accreditamento s'era estinto non attraverso un pagamento astrattamente revocabile, bensì per effetto della compensazione, sottratta alla revocatoria ex art. 56 legge fall.)