(massima n. 1)
Nelle obbligazioni pecuniarie, il fenomeno inflattivo non consente un automatico adeguamento dell'ammontare del debito, né costituisce di per sé un danno risarcibile, ma può implicare, in applicazione dell'art. 1224, secondo comma, c.c., solo il riconoscimento in favore del creditore, oltre che degli interessi, del maggior danno che sia derivato dall'impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l'inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro; in particolare, e sempre nei limiti degli elementi forniti dal danneggiato, il suddetto principio può comportare, in favore del creditore esercente attività imprenditoriale, la considerazione del mancato impiego del denaro nel ciclo produttivo, ovvero della necessità di avvalersi del prestito bancario, e quindi il calcolo forfettario del danno in questione, rispettivamente, alla luce dei proventi medi dell'attività imprenditoriale o del costo del prestito bancario. (Nel caso di specie, la sentenza impugnata aveva ritenuto di poter considerare presuntivamente provato il maggior danno subito da una società, nell'esercizio della sua attività commerciale, per il fatto che la società medesima aveva semplicemente formulato dei progetti; enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha escluso che il maggior danno da mora possa essere presunto sulla base di meri progetti, la formulazione di essi non equivalendo ad averli realizzati e neppure — ove non dedotto — a non aver potuto realizzarli per difetto di liquidità).