(massima n. 1)
Il ricorso per regolamento di giurisdizione proposto in pendenza e nell'ambito di un processo di esecuzione deve essere dichiarato inammissibile, non potendosi più ritenere applicabile, in subiecta materia, per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 353 del 1990, il principio secondo il quale, in qualsivoglia tipo di processo, al potere-dovere del giudice di rilevare il proprio difetto di giurisdizione corrisponde la speculare facoltà delle parti di chiedere alle Sezioni Unite della Suprema Corte una statuizione sulla questione relativa alla giurisdizione stessa. Pur costituendo l'esecuzione forzata uno degli aspetti della tutela giurisdizionale dei diritti, difatti, il disposto degli artt. 41, nuovo testo, c.p.c. («finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado ciascuna parte può chiedere alle Sezioni Unite della Corte che risolvano la questione di giurisdizione») e 367, primo comma, nuovo testo, stesso codice («una copia del ricorso per cassazione proposto a norma dell'art. 41 è depositata, dopo la notificazione alle altre parti, nella cancelleria del giudice davanti a cui pende la causa, il quale sospende il processo se non ritiene l'istanza manifestamente inammissibile — il giudice istruttore o il collegio provvede con ordinanza»), non sembra, oggi, consentire interpretazione diversa da quella che ricostruisca il regolamento di giurisdizione come meccanismo strutturato per il solo processo di cognizione — postulando la prima delle due norme citate un processo evidentemente destinato a svolgersi per gradi, onde pervenire a decisioni aventi natura di sentenza; ed impiegando la seconda di esse nomenclature (giudice istruttore e collegio) anch'esse proprie del processo di cognizione, al fine di individuare il giudice cui spetta la decisione circa la sospensione del processo —, atteso che il processo esecutivo non conosce sviluppo «per gradi» o pronunce avanti natura di sentenza, né è diretto da un giudice che le relative disposizioni designino come «giudice istruttore» (bensì come giudice dell'esecuzione); con la conseguenza che il difetto di giurisdizione assume, in seno a detto processo, il ruolo di quelle situazioni che, nell'impedire al processo stesso di proseguire per la realizzazione del suo scopo, da un lato risultano costantemente rilevabili d'ufficio dal giudice, dall'altro non sono suscettibili di sanatoria e, perciò, legittimamente denunciabili dalla parte interessata mercé il rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi proposto avverso qualsiasi, successivo provvedimento del giudice volto alla realizzazione della pretesa esecutiva, mentre il provvedimento che il giudice stesso adotti sul presupposto del proprio difetto di giurisdizione, assumendo, come contenuto, la dichiarazione che il processo non può proseguire, e, come natura giuridica, quella dell'atto esecutivo, è del pari suscettibile di opposizione agli atti. (Principio affermato dalla Suprema Corte con riferimento ad una istanza di regolamento di giurisdizione proposta in relazione alla asserita incompetenza del giudice ordinario a dare esecuzione ad una sentenza di condanna al deposito dell'indennità dovuta, a titolo di espropriazione, da un ente pubblico: le Sezioni Unite della Corte hanno, nell'occasione, ulteriormente chiarito che la decisione che può essere chiesta con l'istanza di regolamento proposta nei giudizi di opposizione atterrebbe, in astratto, solo alla giurisdizione a conoscere dell'opposizione, che, peraltro, non può che spettare al giudice ordinario una volta che il processo esecutivo sia iniziato dinanzi a lui).